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Tre anni dopo la sfiducia, Cangini: “Draghi, l’occasione mancata per l’Italia”

Il 21 luglio 2022 Mario Draghi lasciava Palazzo Chigi, travolto da una sfiducia che ancora oggi lascia dietro di sé interrogativi e rimpianti. A distanza di tre anni, a ripercorrere quel passaggio cruciale per la storia recente del Paese è Andrea Cangini, ex senatore di centrodestra, che su HuffPost firma un commento lucido e personale: «La sua caduta fu l’esito di un errore storico».

Andrea Cangini ricorda di essere stato l’unico parlamentare del centrodestra a votare la fiducia a Draghi quel giorno di luglio. Lo rifarebbe, dice, perché riteneva, e ritiene tuttora, insensato mandare a casa l’uomo che stava cercando di salvare l’Italia, solo per una mossa tattica volta a salvare la leadership traballante di Matteo Salvini.

Pieni poteri mai usati

Eppure, nella sua rilettura, Cangini non si limita a difendere Draghi. Anzi: il giudizio è tanto ammirato quanto impietoso. Perché se è vero che Draghi si trovò in una condizione irripetibile, sostenuto da quasi tutto l’arco parlamentare, coperto dal Quirinale e dalla Consulta, legittimato dai mercati internazionali e apprezzato dai partner europei – è altrettanto vero che non seppe (o non volle) esercitare quel potere in chiave politica. Secondo Cangini, Draghi avrebbe potuto (e forse dovuto) avviare le grandi riforme di cui il Paese ha bisogno da decenni: riforma della pubblica amministrazione e del sistema istituzionale. Aveva la forza, il consenso, l’autorevolezza per farlo. Ma non lo fece.

Un premier senza passione politica

Alla base di quella mancata svolta, secondo l’ex senatore, c’è un dato semplice ma decisivo: a Draghi, in fondo, la politica non interessava. Accettò l’incarico di guidare il governo con un obiettivo preciso: essere eletto al Quirinale. Fallito quel tentativo, avrebbe comunque continuato volentieri a gestire l’ordinaria amministrazione. Ma non aveva la volontà di farsi carico dello sforzo riformatore che il suo ruolo e il suo tempo avrebbero potuto (e forse richiesto di) imprimere.

Quella telefonata mai ricevuta

Il racconto di Cangini si fa più intimo e rivelatore quando torna alle ultime ore del governo Draghi. Ricorda di aver suggerito alla portavoce del premier di chiamare Berlusconi, di cercare un contatto umano con lui: “Se non volete davvero mollare, provate almeno a parlargli”. Draghi ci provò, racconta Cangini: lo vide uscire più volte dall’aula per telefonare. Ma non riuscì mai a farsi passare il Cavaliere. Il centralino di Arcore era di fatto “blindato” da chi, in Forza Italia, aveva scelto di seguire Salvini. Quell’immagine di Draghi che allarga le braccia, sconsolato, è per Cangini la prova definitiva: non voleva davvero andarsene. Ma neppure fu in grado di imporre una svolta. E così, chiuso tra l’inazione riformista e l’impossibilità di trattare, lasciò che il treno lo travolgesse.

L’ultima occasione persa

“Mario Draghi è stata una gigantesca occasione persa. Forse l’ultima”. Così si chiude, con amarezza, il bilancio di Cangini. Un giudizio che, pur venendo da chi lo difese fino all’ultimo, non assolve Draghi. Perché, con il senno di poi, ciò che resta è la sensazione che quel governo d’emergenza, nato sotto i migliori auspici, abbia mancato l’appuntamento con la storia. Tre anni dopo, l’Italia si ritrova con gli stessi problemi di allora. Ma senza più l’autorevolezza internazionale, la coesione politica e la forza riformatrice che Draghi, se avesse voluto, avrebbe potuto incarnare.