Quando il partito del non voto continua a essere il primo a ogni tornata elettorale, non è più solo un campanello d’allarme: è un rintocco funebre per la democrazia rappresentativa. E in Toscana, dove la politica un tempo era materia viva e condivisa, questo suono risuona ancora più forte. Certo, nel 2020 c’era l’effetto dell’“election day”, cinque regioni al voto e un referendum sul taglio dei parlamentari. Ma la questione oggi è più profonda: il distacco tra cittadini e istituzioni si allarga, e neppure la presenza di un governo “eletto dal popolo” ha invertito la rotta.
La fiducia nelle urne è in caduta libera. Il ritorno della politica, quello sbandierato come antidoto ai tecnicismi e agli “accrocchi” di Palazzo, non è stato accompagnato da un ritorno della partecipazione. Gli italiani continuano a scegliere il silenzio. E questo silenzio è la spia di un sistema che parla solo alle proprie curve, dimenticando che lo stadio è mezzo vuoto.
La vittoria di Giani e il pragmatismo toscano
Eugenio Giani ha vinto. Era prevedibile, in una regione dove la tradizione riformista e la memoria civica pesano ancora. Ma il dato politico non sta tanto nel successo numerico, quanto nel modello che quel successo rappresenta. Non ha vinto il “campo largo” immaginato da Elly Schlein, bensì un’idea di governo concreta e riconoscibile, fatta di infrastrutture, lavoro, welfare e gestione. In poche parole: buon senso amministrativo.
Il presidente uscente, socialista d’altri tempi, ha conquistato la fiducia dei toscani non grazie alle alleanze, ma nonostante esse. La sua candidatura, che la segretaria del PD avrebbe voluto sacrificare sull’altare dell’intesa con i Cinque Stelle, è diventata invece il simbolo di una linea alternativa alla liturgia del compromesso permanente. E con il sistema elettorale regionale che premia chi supera il 40%, Giani avrebbe vinto anche correndo solo con il PD e una lista civica. Il messaggio è chiaro: i cittadini premiano la concretezza, non i calcoli tattici.
Il campo largo e le sue contraddizioni
Il risultato toscano, che Elly Schlein ha subito rivendicato come un successo personale, in realtà mette a nudo tutte le contraddizioni della sua linea politica. Il “campo largo” regge solo sulla carta e non convince né gli elettori né molti amministratori locali. Il compromesso con i Cinque Stelle, che pure doveva garantire unità e solidità, si traduce spesso in una paralisi programmatica. È difficile conciliare il riformismo di Giani con il no ideologico a grandi opere, termovalorizzatori e difesa europea che i grillini continuano a sbandierare. Eppure, dal Nazareno non arriva alcuna reazione. Si preferisce tacere per non disturbare l’alleanza, rinunciando di fatto a un’identità chiara. Così la Schlein rischia di diventare vittima del suo stesso schema: un progressismo “gentile” che si ferma alla superficie, mentre sotto la cenere ribolle la domanda di pragmatismo, di politica reale.
La destra tra leadership e classe dirigente
Sul fronte opposto, Giorgia Meloni incassa un’altra sconfitta in terra difficile ma chiude la partita interna con un cappotto: la destra vannacciana non sfonda, anzi si rivela un limite. Il problema, per Fratelli d’Italia, non è più l’identità ma la qualità della classe dirigente. Nelle regioni “rosse”, il partito continua a schierare candidati che non bucano il muro dell’elettorato moderato. Eppure, la premier può consolarsi: il consenso nazionale resta alto, e la distanza con la sinistra non si colma certo con la sola Toscana.
Il futuro (incerto) della politica italiana
Alla fine, il voto toscano ci dice una cosa semplice ma decisiva: la gente premia chi governa bene, non chi fa alleanze a tavolino. Il “campo largo” non è un ideale, è una geometria politica: utile forse per contare i seggi, non per conquistare le coscienze. Giani, con il suo riformismo mite, ha ricordato che la sinistra può ancora vincere se smette di inseguire l’illusione del fronte unico e torna a parlare di lavoro, crescita, diritti. Resta però la vera emergenza democratica: la diserzione dal voto.
Quando metà del Paese sceglie di non partecipare, non basta un governatore prudente o una premier determinata. Serve ricostruire un legame spezzato. Perché finché la politica continuerà a parlare solo a se stessa, il primo partito d’Italia resterà quello dell’astensione.





