Press "Enter" to skip to content

Referendum sul referendum: perché oggi è una provocazione che ha senso

I referendum del 2025 si sono chiusi con un sonoro flop: affluenza ferma al 29,15%, quorum lontano come l’Eldorado. E allora la domanda sorge spontanea: siamo sicuri di voler continuare così? Davvero ha ancora senso chiamare milioni di cittadini alle urne per poi contare solo l’eco dei loro sandaletti da mare? Perché non farlo davvero, un referendum sul referendum? Chiedere agli italiani se lo vogliono ancora, questo strumento glorioso ma claudicante. E soprattutto: su cosa lo vogliono. Quali sono i temi che meritano la loro voce, e quali invece è meglio affidare responsabilmente a chi governa?

Al momento, la macchina referendaria è diventata un pachiderma lento e costoso, messo in moto spesso più per marcare un territorio politico che per aprire un reale dibattito pubblico. Cinque quesiti – quattro sul lavoro, uno sulla cittadinanza – e alla fine l’unico segnale forte è stata l’assenza. La maggioranza degli italiani, ancora una volta, ha deciso che tra il mare e il seggio, vince il mare. E non perché siano menefreghisti, ma perché si sentono presi in giro. Stanchi di chiamate alle armi che si rivelano colpi a salve.

Il paradosso, diceva Karl Kraus, è una verità e mezzo. E in effetti un referendum sulla vita o sulla morte del referendum potrebbe essere una grande prova di maturità democratica. Un modo per restituire senso a uno strumento che oggi, così com’è, sembra servire più ai promotori per farsi notare che ai cittadini per farsi ascoltare. Il caso Meloni è emblematico: si è recata al seggio, ma non ha ritirato le schede. Un voto/non-voto che è insieme scelta politica e segnale di disillusione istituzionale. Mattarella, invece, ha votato a Palermo. E nel mezzo, le polemiche: presunte violazioni del silenzio elettorale, dubbi sulle modalità con cui gli elettori venivano “indirizzati”. Tutto questo ha un sapore stantio, come una commedia già vista troppe volte.

Non è la vittoria del centrodestra, non è la sconfitta del centrosinistra. È la disfatta di una politica che da tempo ha smesso di parlare davvero al Paese. I partiti (o meglio: le sigle) usano i referendum come palcoscenici per esistere, per dire “ehi, ci siamo anche noi, difendiamo i tuoi diritti!”. Ma il pubblico, ormai, è sceso dalla platea. Nauseato, disilluso, altrove.

Forse serve davvero fermarsi e riflettere. Riprogettare questo strumento, ridisegnarlo con coraggio e onestà. O decidere, collettivamente, di archiviarlo. Non sarebbe una sconfitta della democrazia, ma un atto di chiarezza. Di sincerità.