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Referendum, chi ha vinto e chi ha perso: il commento di Luciano Fontana

Nel suo intervento per il Corriere della Sera, il direttore Luciano Fontana non gira intorno alla questione: il referendum appena celebrato è stato, più che un test politico, un ritratto impietoso del disinteresse civile. Un appuntamento nato già fiacco e concluso, prevedibilmente, nel segno dell’astensione massiccia, la vera e indiscutibile vincitrice della tornata. Alle 23.00 l’affluenza si è fermata al 22,7 %, con punte ancora più desolanti nel Sud del Paese. Un quorum irraggiungibile, come già avvenuto nel 2022 e in altri referendum recenti.

Fontana osserva con lucidità come l’astensione non sia stata solo frutto di disillusione o di pigrizia elettorale. C’è dietro, semmai, una scelta politica esplicita, soprattutto da parte della maggioranza di governo, che ha deciso di non mobilitarsi, anzi in certi casi di boicottare silenziosamente la consultazione. Con un’eccezione timida: Noi Moderati, che ha tentato di alzare la voce a favore del “sì”, ma senza lasciare tracce visibili nel dibattito nazionale.

Il dato più preoccupante, sottolinea Fontana, è che il referendum – uno degli strumenti più preziosi della democrazia diretta – non riesce più ad accendere l’interesse dei cittadini. Né i temi, né la polarizzazione, né tantomeno le forzature retoriche dei promotori (che in alcuni casi hanno tentato di trasformare il voto in un giudizio politico sul governo) sono riusciti a smuovere gli elettori. Un errore strategico? Calenda lo dice apertamente: sì, è stato un autogol. Fontana è più sobrio, ma lascia intendere che la politica abbia di nuovo giocato una partita rischiosa su un terreno delicato.

Il direttore invita anche a guardare oltre i numeri secchi, analizzando la geografia dell’affluenza. Nel Centro-Nord – in particolare Toscana, Emilia-Romagna, Lazio e Lombardia – si è votato di più. Al Sud, invece, si è assistito a una vera e propria fuga dalle urne. La Calabria, in particolare, ha toccato uno dei livelli più bassi di partecipazione. Questo squilibrio, secondo Fontana, dice molto sulla frammentazione del Paese, sulle diverse sensibilità territoriali e sulla distanza sempre più ampia tra politica e cittadini.

Il vero sconfitto, però, non è solo il fronte del “sì” o del “no”. È l’istituto referendario in sé, che appare svuotato di forza e credibilità. Perché votare su questioni che, nella percezione pubblica, non cambiano nulla concretamente? Fontana ricorda come già in passato i referendum abbiano deluso le attese, diventando strumenti inefficaci e sempre più ignorati. Il rischio, evidente, è che la democrazia partecipativa si trasformi in una liturgia vuota, stanca, rituale.

E allora ci si domanda: ha ancora senso convocare referendum in questo modo, con questi temi, in questo clima? Forse è il momento – suggerisce implicitamente Fontana – di ripensare l’intero impianto. Perché se la partecipazione crolla, e la politica si rifugia nell’astensione strategica, a restare sul campo non è solo un voto non valido, ma una ferita alla legittimità democratica.

Alla fine, la fotografia scattata da Luciano Fontana è tanto sobria quanto impietosa. Ha vinto il disinteresse, ha perso il coinvolgimento civico. E chi si illudeva che bastasse un quesito ben confezionato per riaccendere la passione politica, dovrà ricredersi. Il referendum, oggi, non parla più agli italiani. E gli italiani, semplicemente, non lo ascoltano più.