Mentre piovono bombe sull’Ucraina e l’Europa prova finalmente a parlare con una voce più compatta, in Italia una parte della sinistra continua a rimanere impantanata in un eterno presente: quello in cui Giuseppe Conte detta la linea e il Partito Democratico si limita a prenderne le misure, cercando di non scostarsi troppo.
La conferenza internazionale di Roma, organizzata dal governo Meloni e aperta da un intervento limpido e autorevole di Sergio Mattarella, ha segnato un passaggio politico importante. Accordi per miliardi di euro a favore di Kyiv, impegni concreti, una cornice istituzionale che rafforza la posizione europea a sostegno della resistenza ucraina. Eppure, il Pd sembra essersene accorto appena, come se il fatto che l’evento sia stato promosso da una maggioranza di destra ne invalidasse automaticamente il valore.
Non è questione di forma, ma di sostanza. In un momento in cui le democrazie europee si riorganizzano, con la spinta decisiva di Macron e, ora, anche del governo laburista di Starmer, in Italia c’è ancora chi si rifugia in un pacifismo nebuloso, più identitario che strategico, più utile per segnare distanze interne che per incidere davvero sul piano geopolitico. E qui si torna alla vecchia storia: quando Conte prende posizione, o meglio, quando non la prende, una parte del Pd si adegua, per timore di sembrare “bellicista”, “atlantista”, o peggio ancora, “meloniana”.
L’episodio dei missili Taurus è emblematico: i riformisti votano sì al Parlamento europeo, altri esponenti dem si sfilano. Non è un inciampo occasionale, ma il riflesso di un’ambiguità costante, che trova nella leadership di Elly Schlein una sintesi fragile. Lo si è visto già mesi fa, quando la segretaria parlò del “falso pacifismo di Trump” ma anche di un’Europa che “vuole continuare la guerra”. Una frase che non sta in piedi né politicamente né moralmente.
La verità è che una parte della sinistra italiana non riesce ad assumere fino in fondo una posizione netta: né sulla guerra in Ucraina, né sul diritto di Kyiv a difendersi, né sul ruolo che l’Occidente può e deve avere per fermare l’aggressore. A dominare è un sospetto latente, una voglia di trattativa che sa di resa mascherata. Una domanda che non si dice, ma aleggia: “Non sarebbe ora che Zelensky si sedesse al tavolo e la chiudesse qui, tanto non può vincere?”.
Questo approccio ha finito per contaminare anche altre scelte. Come l’aperta simpatia mostrata da Schlein verso Francesca Albanese, figura controversa e divisiva, che mai ha condannato con chiarezza i crimini di Hamas. Una posizione incomprensibile per chi si proclama progressista, e che contribuisce ad alimentare l’impressione di una linea politica che evita ogni complessità rifugiandosi in slogan identitari.
Ora si attende la prossima Direzione del Pd. Ma la domanda vera non è se ci saranno voti contrari o mozioni alternative. La domanda è se, prima o poi, il partito riuscirà a liberarsi di questa subalternità culturale che lo tiene ancorato a un’idea di sinistra debole, reattiva, incapace di scegliere. Perché stare nel campo progressista non significa inseguire chi grida più forte, ma assumersi la responsabilità di una visione. E oggi, sostenere l’Ucraina è l’unica scelta che una sinistra europea e moderna può permettersi di fare.





