Le urne non sono vicine, o almeno non dovrebbero esserlo. Ma qualcosa si muove. Anzi, fermenta. Nel grande cantiere del centrosinistra si avvertono scricchiolii, martellate, tentativi di ristrutturazione. Il puzzle del “campo largo” si sta ricomponendo, o forse si sta semplicemente scomponendo per l’ennesima volta. Niente di definitivo, per ora: siamo ancora nel regno delle geometrie variabili, più che delle idee forti. Un laboratorio, più che un’officina. Ma il fermento c’è, e non si limita alla solita triade Pd–M5S–AvS. C’è chi prova ad allargare i confini della coalizione, sperando di renderla meno gracile, più articolata, magari anche un po’ più attraente. Ma il rischio, come sempre, è di costruire una barca con troppi timonieri e nessuna rotta.
Scialuppe, zattere e mini-progetti
Detta in modo meno lirico, nel centrosinistra si moltiplicano le scialuppe, ognuna con il proprio piccolo equipaggio, pronta a salpare verso il Parlamento. Non è detto che approdino tutte. Alcune naufragheranno ben prima della traversata. Ma il movimento è iniziato. In campo ci sono gli amministratori riformisti, da Silvia Salis, sindaca di Genova, al sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, passando per Alessandro Onorato, riferimento romano dei gualtieriani. Poi ci sono i pacifisti storici della comunità di Sant’Egidio, l’apparizione lenta ma costante di Ernesto Maria Ruffini, i nostalgici del socialismo, i repubblicani, Più Europa, e altri soggetti ancora senza nome ma con molte ambizioni. Sembra un’ulivizzazione spontanea, dove ognuno porta un ramo d’ulivo, ma nessuno la pianta.
Pluralità o confusione?
Questo proliferare di iniziative è arricchimento o caos? Dipende tutto dalla leadership. Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni: riusciranno a governare questo processo o proveranno ad annacquarlo inglobando i nuovi soggetti nelle proprie liste? Il dilemma è sempre lo stesso: meglio un fronte largo e complicato o una macchina elettorale più snella ma meno rappresentativa? E soprattutto: chi tiene il timone?
Serve un nuovo Prodi?
La domanda che aleggia, neanche troppo velatamente, è quella antica: serve un federatore? Ai tempi dell’Ulivo, Romano Prodi aveva il profilo, il carisma e la pazienza per tenere insieme mondi diversi. Oggi, una figura così non si intravede nemmeno con il binocolo. Qualcuno pensa che Elly Schlein, in quanto leader del partito più grande, debba assumere quel ruolo. Ma se il campo si allargherà, anche verso sensibilità più centriste o riformiste, lei potrebbe non essere il baricentro adatto. Il rischio è che diventi un ostacolo più che un collante. Goffredo Bettini, eterno architetto dell’area progressista, lancia segnali al Nazareno: no ai personalismi, sì a un progetto più ampio, più generoso. Sottotesto: non si insista su Schlein candidata premier a tutti i costi. Un messaggio che non cade nel vuoto. In certi ambienti romani, i famigerati “ceti medi riflessivi”, e in alcune aree del Pd, soprattutto nel Sud, il legame con la segretaria si è ormai logorato, se non del tutto spezzato.
Meloni osserva, e prepara il colpo
E mentre il centrosinistra si interroga, Giorgia Meloni osserva e prepara la mossa. La nuova legge elettorale che vorrebbe imporrà il nome del candidato premier sulla scheda: una mossa pensata per destabilizzare gli avversari. E, diciamolo, anche per giocare una partita che sa di poter vincere. Meloni punta tutto sul duello frontale con Schlein, convinta che quel match sia già segnato. Il problema? Che cominciano a pensarlo anche a sinistra.





