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Attentato a Sigfrido Ranucci, il sinistro messaggio che arriva da Campo Ascolano

L’attentato a Sigfrido Ranucci non è un episodio da archiviare con la fretta tipica della cronaca nera. Due ordigni piazzati sotto le auto di un giornalista e di sua figlia, in una località alle porte di Roma, raccontano qualcosa che va oltre la minaccia personale. È un avvertimento alla libertà di stampa, un messaggio rivolto a chi ancora crede che raccontare i fatti significhi servire l’interesse pubblico e non compiacere il potere.

C’è un dettaglio che colpisce più della dinamica stessa: la normalità con cui una parte del dibattito pubblico liquida episodi simili come “esagerazioni” o “gesti isolati”. È come se la società, lentamente, avesse iniziato ad assuefarsi all’idea che un giornalista può essere messo a tacere, colpito, intimidito. E quando l’intimidazione diventa ordinaria, è la democrazia stessa a cambiare forma, quasi senza che ce ne accorgiamo.

Non si tratta solo dell’Italia. In tutto l’Occidente si è diffuso un linguaggio che legittima l’ostilità verso i media. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha ripreso a definire i giornalisti “nemici del popolo”, e quell’etichetta, che allude a un nemico interno da neutralizzare, si è sedimentata nel discorso pubblico. In altre aree del mondo non si perde tempo con le parole: si passa direttamente all’eliminazione fisica. Nel 2024 sono stati uccisi 124 giornalisti. Una cifra che dovrebbe scuotere le coscienze e che invece scivola via, soffocata dalla saturazione informativa e dalla rassegnazione.

Il fronte più drammatico resta quello della guerra a Gaza. Dal 7 ottobre 2023 oltre 180 giornalisti sono stati uccisi. La maggior parte erano cronisti locali, freelance spesso senza protezioni, che documentavano il conflitto in condizioni estreme. Morire mentre si riprende un’esplosione o si raccoglie la testimonianza di una famiglia sotto assedio non può essere considerato un “danno collaterale”: è l’eliminazione diretta di uno sguardo, di una testimonianza. È la negazione del diritto a sapere.

E poi c’è la Russia, dove l’elenco dei cronisti uccisi o scomparsi è un catalogo della violenza di Stato. Anna Politkovskaja, Paul Klebnikov, Antonio Russo. Nomi che per chi fa questo mestiere hanno un significato preciso: ricordano che esiste un prezzo da pagare per l’indipendenza. Anche l’Europa non è immune. Daphne Caruana Galizia fatta saltare in aria a Malta, Ján Kuciak assassinato in Slovacchia per aver osato indagare dove non era consentito guardare.

L’Italia non vive una stagione di omicidi eccellenti, ma questo non significa che la libertà di stampa goda di buona salute. Le minacce aumentano, il linguaggio politico si è irrigidito, l’ostilità verso il giornalismo d’inchiesta cresce. Secondo i dati aggiornati, nei primi sei mesi del 2025 si è registrato un aumento del 75% degli episodi di intimidazione rispetto all’anno precedente. Un segnale chiaro: chi indaga, chi espone, chi disturba è sempre più isolato.

In tutto questo c’è un errore che continuiamo a commettere: credere che la libertà di stampa sia una questione che riguarda solo i giornalisti. È un’illusione comoda, perché ci deresponsabilizza. La verità è che riguarda i cittadini, perché il diritto di essere informati è il primo strumento di difesa contro l’abuso di potere. Ogni volta che un cronista viene messo a tacere, non si spegne solo una voce scomoda: si spegne un pezzo di democrazia. E il silenzio, lo sappiamo, è sempre il terreno più fertile per chi vuole governare senza essere osservato.