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Ecco chi in Europa ostacola il piano Draghi: il retroscena di Giavazzi e Tabellini

Un anno è passato dal Rapporto Draghi sul rilancio dell’Unione Europea, e il bilancio non è incoraggiante. Quello che avrebbe dovuto rappresentare una road map per modernizzare l’Europa (innovazione, energia, concorrenza e nascita di un “ventottesimo Stato” per favorire le start-up) resta in gran parte un cantiere fermo. Secondo la Commissione europea, solo il 10% delle misure proposte dall’ex premier italiano sono state effettivamente attuate. Il resto, come spesso accade a Bruxelles, si è impantanato tra burocrazia, resistenze nazionali e l’eterna paura di “sognare troppo”.

Per capire dove e perché si è arenato quel piano, l’Università Bocconi ha organizzato un incontro pubblico con Francesco Giavazzi e Guido Tabellini, economisti di lungo corso e interlocutori diretti di Mario Draghi nella stesura del Rapporto. L’obiettivo: non perdersi nell’ampiezza delle analisi, ma individuare i punti cardinali su cui ricominciare a costruire.

Le quattro priorità di Draghi, secondo Giavazzi

Giavazzi, che del Rapporto conosce ogni piega, ha sintetizzato in quattro linee guida le priorità individuate da Draghi: innovazione tecnologica, energia, regole per le fusioni aziendali e un “ventottesimo Stato” europeo dedicato alle start-up.

La prima è l’innovazione, “la ragione per cui l’Europa ha perso il 25% della produttività negli ultimi decenni”, ha spiegato l’economista. La seconda è l’energia, “campo nel quale ci siamo dimostrati incapaci di tagliare le rendite”. Terzo punto, la revisione delle regole per le fusioni aziendali: un terreno su cui l’ex commissaria Margrethe Vestager ha sempre difeso l’idea di mantenere la concorrenza interna anche a costo di limitare la crescita dimensionale delle imprese europee. Un caso emblematico è quello di Siemens-Alstom: la fusione fu vietata perché avrebbe creato un quasi monopolio nel mercato comunitario, ma il risultato fu che i veri concorrenti — i cinesi — nel frattempo crebbero indisturbati, lasciando le aziende europee ferme nella loro dimensione. “Un esempio di euro-masochismo”, ha osservato Giavazzi.

Infine, la proposta più visionaria: un 28° Stato europeo, una sorta di Delaware dell’innovazione, dove le start-up possano registrarsi con regole comuni e riconosciute in tutti i Paesi membri. “Le nuove imprese non possono sostenere i costi legali e amministrativi di 27 legislazioni diverse. Creare un sistema unitario significherebbe liberarci da una frammentazione paralizzante”, ha spiegato.

Solo un passo avanti: il “ventottesimo Stato”

Tra queste quattro priorità, solo la quarta — quella del “ventottesimo Stato” — ha fatto progressi concreti. La Commissione europea ha approvato il progetto, ora all’esame del Parlamento. Tutto il resto, come nota Il Foglio, è rimasto “un affresco appeso nella sala d’attesa dell’Europa”: bello da vedere, ma senza cornice istituzionale per reggerlo.

Giavazzi ha raccontato un episodio emblematico: «La commissaria spagnola Ribera ha chiesto di preparare un piano per nuove regole sulle fusioni, ma si è scontrata con la direzione generale Concorrenza, gelosa delle proprie prerogative. È un caso singolo, ma riflette la difficoltà di far avanzare qualunque riforma strutturale». Secondo Tabellini, le vere resistenze non vengono solo da Bruxelles ma dagli Stati membri, ancora restii a cedere sovranità. “Servirebbe un’integrazione politica più accentuata. Come accadde ai tempi della nascita della Bce: anche allora sembrava un sogno, eppure i leader europei lo fecero. Oggi invece abbiamo smesso di sognare”.

“Abbiamo smesso di sognare l’Europa”

Il dibattito alla Bocconi è diventato, in realtà, un esercizio di autocritica collettiva. “Di un’integrazione più spinta si è smesso di parlare”, ha detto Tabellini. “E senza il pensiero delle élite europeiste, è difficile produrre avanzamenti concreti. La Commissione, non essendo eletta direttamente, non ha forza propria. Spesso i governi scelgono a Bruxelles figure che non facciano loro ombra”. Eppure, aggiunge, i cittadini europei non sono ostili all’idea di maggiore integrazione. L’80% vorrebbe politiche comuni su esteri e difesa — nel 2010 erano il 60%. “Le condizioni democratiche per chiedere ai leader europei di essere sognatori ci sono tutte”. Alla replica di Giavazzi, secondo cui i cittadini votano in prevalenza partiti nazionalisti, Tabellini ha risposto che gli europei non sono contrari, ma disillusi: “Preferirebbero votare direttamente il presidente della Commissione”.

Tra realismo e coraggio: la lezione di Draghi

Giavazzi ha infine riconosciuto un limite del Rapporto: “Forse non abbiamo alzato abbastanza la posta. Dovevamo chiedere una svolta politica”. Ma la domanda resta: l’Europa è pronta?

Lo stesso economista ha ricordato il progetto di riforma dei Trattati elaborato da Giscard d’Estaing e Giuliano Amato, poi bocciato da un referendum. “Non possiamo rischiare che tutto si fermi per un voto contrario. Per questo il metodo delle cooperazioni rafforzate, usato per l’euro, potrebbe tornare utile oggi per la difesa comune”. Un percorso realistico, ma non privo di limiti. Come ha chiosato Tabellini: “Le cooperazioni rafforzate non cambiano le istituzioni politiche”. In altre parole, servono a muoversi, ma non a sognare.

Ed è forse questa la vera lezione del Rapporto Draghi a un anno dalla sua presentazione: non basta scrivere un grande piano per l’Europa, se poi manca il coraggio di crederci. Un monito che, come nota Il Foglio, “suona più attuale che mai, in un continente che teme il rischio più della mediocrità”.