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Le armi a Kyiv? Le paga l’Europa (ma sono made in USA). Perché l’Italia si sfila

C’è una nuova formula nella guerra in Ucraina, e porta la firma di chi non ti aspetti. Dopo mesi di ambiguità, l’ex presidente americano, tornato al centro della scena, ha rotto gli indugi. Non più minacce di tagli, ma un colpo di scena: altre batterie di missili Patriot saranno inviate a Kyiv. Il dettaglio non trascurabile? Le armi saranno statunitensi, ma a pagarle saranno gli alleati europei. Non tutti, però. Tra i grandi assenti, l’Italia. Una scelta che non nasce solo da questioni di bilancio o opportunità politica, ma da limiti giuridici precisi. Il nostro Paese, infatti, può cedere armamenti già in dotazione, ma non può acquistarne di nuovi all’estero per inviarli direttamente in Ucraina senza un’apposita legge. Una forzatura che oggi, con una maggioranza divisa e un Parlamento restio, nessuno sembra voler affrontare. A spiegare la posta in gioco e il possibile cambio di paradigma è Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), in un’intervista a Formiche.

La mossa di Trump: più missili, meno spese (per gli Usa)

Il cambio di passo dell’ex presidente Trump nasce, secondo Nones, dal fallimento della sua linea morbida verso la Russia. “Aveva promesso di risolvere la guerra in una settimana, ha provato ad addossare le colpe a Zelensky e all’Europa, ma senza risultati. Ora prende atto che da Mosca non c’è volontà di trattare”, spiega. La decisione di inviare nuove batterie Patriot, quindi, non è un ritorno al pieno impegno americano, ma “un tentativo di forzare la mano, senza metterci troppi soldi”. Infatti, l’onere economico sarà tutto europeo. Germania e Norvegia sono tra i primi a partecipare, con Berlino pronta a cedere alcune unità in suo possesso e Oslo intenzionata ad acquistare direttamente dal mercato americano.

Un nuovo modello di aiuto militare?

Per Nones, si tratta dell’inizio di un nuovo modello di supporto militare: gli Usa forniscono il know-how e le armi, ma tocca agli europei metterci il portafoglio. Una soluzione conveniente per Washington — e tutto sommato anche per Bruxelles, almeno nel breve periodo. Perché l’industria della difesa europea, oggi, non è ancora pronta a sostenere da sola la domanda crescente. “Nel frattempo, rivolgersi agli Stati Uniti è inevitabile, a patto di fare scelte oculate per non compromettere lo sviluppo di una difesa comune europea”, avverte Nones.

L’Italia resta alla finestra

Il nostro Paese si chiama fuori, e non solo per prudenza politica. La legge italiana attuale consente di inviare armi già disponibili, come fatto finora, ma non di acquistarne di nuove per terzi. “Servirebbe una nuova norma e con l’attuale quadro parlamentare, è difficile pensare che il governo voglia correre questo rischio”, sottolinea Nones.

Un’assenza che potrebbe pesare nei rapporti con Washington? Dipenderà da come il governo gestirà il dossier, ma certo la questione tornerà sul tavolo molto presto, soprattutto in vista dell’impegno europeo ad alzare la spesa militare al 3,5% del Pil entro il 2035. La vera sfida, secondo Nones, è mantenere l’equilibrio tra autonomia strategica europea e coerenza dell’Alleanza Atlantica. “Fino a oggi siamo riusciti a coniugare concorrenza e collaborazione. Ma l’instabilità politica e i cambi di linea repentina, come quelli di Trump, mettono questo equilibrio a dura prova”, ha chiarito. Il rischio, conclude, è che la corsa alla riarmamento finisca per soffocare i programmi comuni europei, consegnando all’America non solo la leadership militare, ma anche quella industriale.