In un’intervista al Corriere della Sera, Romano Prodi osserva con prudenza l’entusiasmo della sinistra italiana per Zohran Mamdani, il neosindaco di New York salito rapidamente agli onori della cronaca come nuovo faro del progressismo. Pur riconoscendone i meriti, ha riattivato la partecipazione, ha conquistato i giovani e ha portato avanti una campagna elettorale con pochissimi fondi, Prodi invita a evitare facili mitizzazioni. A suo giudizio Mamdani non è un rivoluzionario: è figlio di un professore della Columbia University e di una nota intellettuale. Se proprio bisogna citare un sindaco rivoluzionario, aggiunge, il riferimento resta Fiorello La Guardia. Ma soprattutto, secondo lui, la vera novità che arriva dagli Stati Uniti non riguarda New York.
A convincerlo molto di più è stata la vittoria delle due governatrici democratiche in Virginia e in New Jersey, politiche più moderate rispetto a Mamdani. «È quello che serve a noi: un riformismo coraggioso ma concreto», spiega l’ex premier. Secondo Prodi, la sinistra deve puntare su un cambiamento possibile e credibile, evitando radicalismi che rischiano di spaventare chi dovrebbe sostenerla. La giustizia sociale resta un tema centrale — «la concentrazione delle ricchezze è impressionante, la buonuscita di Musk lo dimostra» — ma il nodo sta negli strumenti da usare per affrontare il problema: politiche comprensibili, solide e sostenibili.
Per Prodi la domanda fondamentale resta come si governa. «Per governare serve il consenso della maggioranza», afferma, sollecitando la sinistra a tornare a parlare di tasse, immigrazione, sanità e scuola con parole precise e non con slogan. Bisogna chiarire in anticipo cosa si può realizzare, con quali risorse e a scapito di cosa. Non tutto può essere finanziato aumentando le imposte. L’unico percorso possibile, insiste, è un riformismo concreto che tenga insieme coraggio e pragmatismo. E per farlo servono idee chiare e leader credibili.
Sul fronte dei nomi, Prodi non boccia nessuno: «I leader possono nascere. O farsi». Alla domanda sulla patrimoniale, però, è netto: parlarne ora sarebbe percepito come un atto di oppressione fiscale. E passa agli sgravi della manovra, che giudica squilibrati: «Lo sostiene anche il Financial Times». Secondo lui il governo ha fatto credere che i benefici vadano ai redditi medio-bassi, quando invece riguardano soprattutto le fasce più alte. Prodi conferma anche di aver parlato con Elly Schlein dopo le sue critiche al centrosinistra: le ha ribadito le sue preoccupazioni, temendo che una parte dell’elettorato si allontani per una lettura troppo ristretta della società. E ricorda che la legislatura è già oltre la metà.
Quanto a Giorgia Meloni, osserva che il suo consenso è legato soprattutto all’assenza di alternative. «Non ha realizzato nulla: la crescita è debole, la produzione industriale in sofferenza. La sua forza è la durata». Sul possibile futuro del centrosinistra, non esclude tensioni tra Pd, M5S e Avs: è un rischio simile a quello che Meloni affronta con la Lega. Ma l’incognita resta Giuseppe Conte, che nella sua testa non sembra aver ancora definito pienamente il proprio ruolo. «Se il centrosinistra vincerà, speriamo che non gli prenda la bertinottite», dice. Alla fine uno tra Schlein e Conte dovrà riconoscere la leadership dell’altro. Prima ancora, però, serve costruire una coalizione larga con un programma capace di parlare anche a chi oggi non si riconosce nell’opposizione.
Sull’iniziativa politica di Ernesto Maria Ruffini Prodi si limita a dire di seguirla con interesse, così come segue i movimenti interni al Pd. E non manca una nota ironica sul viaggio di Massimo D’Alema in Cina accanto a Putin e Kim Jong-un: «Ho insegnato per un semestre a Pechino, non ho un rapporto ostile con quel Paese, eppure non mi hanno invitato. Il buon senso del governo cinese è molto forte».
Resta preoccupato per lo stato della democrazia nel mondo: «Trump suscita un allarme democratico. E mi stupisce che Meloni preferisca lui all’Europa». Lo angoscia anche la volontà italiana di mantenere il meccanismo dell’unanimità in Ue, che a suo parere è il vero freno dell’Europa. Sulla guerra in Ucraina è molto chiaro: «Continuare ad armare Kiev è necessario se si vuole arrivare a un compromesso e non a una resa». Ma avverte che l’opinione pubblica è stanca, e questo va considerato. A spaventarlo davvero, però, è altro: «L’incapacità dell’Europa di incidere».





