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Onu, dieci Paesi pronti a riconoscere Stato di Palestina: rischi e condizioni

L’appuntamento è fissato per lunedì, quando Emmanuel Macron salirà sul palco dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York per annunciare insieme ad altri Paesi il riconoscimento dello Stato di Palestina. Quando il leader francese aveva anticipato la decisione a giugno, sembrava un gesto isolato. Eppure, nel tempo si sono aggiunti partner insospettabili: Canada, Australia e, pochi giorni fa, il Lussemburgo. Ora anche Regno Unito e Belgio, finora prudenti, sarebbero pronti a compiere il passo, inquadrato nella dichiarazione programmatica per la «soluzione a due Stati» approvata alle Nazioni Unite.

Secondo Parigi, lunedì potrebbero esserci «sorprese» e alla fine a unirsi alla Francia sarà un gruppo di una decina di Stati. Una coalizione di volenterosi che Macron ha costruito con un lavoro discreto ma serrato, in tandem con l’Arabia Saudita. «Abbiamo vinto la scommessa diplomatica», confida una fonte del Quai d’Orsay. «Molti governi che in passato chiedevano di aspettare ora vogliono riconoscere la Palestina per contribuire al processo, non più come tappa finale. Un cambio di paradigma fondamentale».

Rischi e condizioni

A Parigi non si nascondono le preoccupazioni. Il riconoscimento potrebbe partorire uno Stato fragile e frammentato, privo di reale sovranità, o venire percepito come un premio al terrorismo. Per questo la Francia prevede un riconoscimento «a tappe», legato all’evoluzione concreta sul terreno. Tra le misure possibili figura l’apertura futura di un’ambasciata a Ramallah, ma solo dopo che l’Autorità nazionale palestinese avrà dimostrato capacità di governo, legittimità e impegno sul rinnovamento democratico. È questa la stessa condizione che diversi Paesi esitanti pongono come prerequisito per aderire all’iniziativa.

La battaglia dell’opinione pubblica

L’altro fronte è quello mediatico e politico. «Uno Stato palestinese credibile, sostenuto e riconosciuto rappresenta la morte politica di Hamas», ribadisce il ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot. Ma il governo Netanyahu, con l’appoggio di parte degli Usa, ha bollato la mossa francese come un «regalo a Hamas». Per contrastare questa narrazione, Macron ha scelto di rilasciare un’intervista a una tv israeliana alla vigilia dell’Assemblea, nel tentativo di spiegare il senso dell’iniziativa e rassicurare l’opinione pubblica di Tel Aviv.

Arabia Saudita e piano di stabilizzazione

Il documento approvato a New York, co-presieduto da Francia e Arabia Saudita, chiede esplicitamente ad Hamas di consegnare le armi e cedere il controllo di Gaza all’Anp. «L’Arabia Saudita è stata determinante e non ha mai fatto un passo indietro», spiegano fonti diplomatiche, anche se la presenza del principe ereditario Mohammed Bin Salman a New York non è ancora confermata.

Parigi sa bene che l’Anp non dispone da sola dei mezzi per disarmare Hamas. Per questo la soluzione immaginata è la creazione di una missione internazionale di stabilizzazione, ispirata a un piano arabo già discusso nei mesi scorsi e ora inserito nella dichiarazione di New York. Un primo incontro tra partner europei e mediorientali si è già svolto a Parigi per valutarne la fattibilità. Una nuova riunione definirà mandato, legittimità e composizione della missione.

Possibili ritorsioni israeliane

La diplomazia francese non esclude reazioni dure da parte di Israele, come la chiusura del consolato francese. «Siamo pronti a ogni scenario», assicurano fonti del Quai d’Orsay, ricordando che una simile mossa avrebbe conseguenze dirette sugli oltre 180mila cittadini israeliani con passaporto francese. Macron resta convinto che la nuova dinamica possa persino rilanciare gli Accordi di Abramo, con un rinnovato ruolo degli Stati Uniti. Ma intanto Washington ieri ha scelto di porre il veto al Consiglio di Sicurezza su una risoluzione che chiedeva a Israele la revoca delle restrizioni agli aiuti umanitari per Gaza, un cessate il fuoco permanente e ad Hamas la liberazione degli ostaggi. Tutti gli altri membri hanno votato a favore: gli Usa sono rimasti soli nel dire di no.