‘Ndrangheta e caso Moro, due parole che da molto tempo sono accostate ma che ancora oggi non hanno trovato posto nella verità giudiziaria e storica. Partiamo dal giorno della strage di via Fani, quel tragico 16 marzo 1978. In quel giorno infausto che avrebbe segnato per sempre la storia d’Italia, qualcuno avvertì l’agente capo della scorta del presidente Dc dell’agguato di via Fani. E l’agente, infatti, per quel giorno chiese un permesso. Quel “qualcuno” era un boss della ‘Ndrangheta calabrese. Ad affermarlo è uno dei pentiti considerati più attendibili dalla magistratura in un verbale di interrogatorio “dimenticato” per anni e misteriosamente scomparso dagli atti della Commissione d’inchiesta sul caso Moro. L’agente tirato in ballo, purtroppo, non può essere interrogato: è deceduto sette anni fa. Oggi vi raccontiamo in dettaglio l’ennesimo mistero attorno ad una delle pagine più oscure della storia della Repubblica. (Segue dopo la foto)

Filippo Barreca, il pentito della ‘Ndrangheta che sa molte, troppe cose sugli intrecci tra “malapianta”, terrorismo ed eversione
Lui si chiama Filippo Barreca, classe 1947, nativo di Reggio Calabria. La sua famiglia era una delle ‘ndrine, le famiglie alla base della organizzazione della ‘ndrangheta, più importanti di Reggio Calabria. Comandavano a Pellaro, quartiere a sud della città. Filippo Barreca già nel 1979 aveva la “dote” di ‘Ndrangheta più elevata, la “Santa”, quella che permetteva di interagire anche con non appartenenti al sodalizio, di alto livello, quali politici, membri delle forze dell’ordine, magistrati. E con la massoneria deviata. In “copiata” (praticamente i garanti dell’affiliazioni mafiosa), Filippo Barreca aveva boss di primo livello a Reggio Calabria quali Santo Araniti e Natale Iamonte. Un suo cugino, Consolato Barreca, fu ucciso nel 1985 a Milano dove operava nel traffico di droga in contrasto con elementi vicini ai De Stefano-Libri.
Fu la prima vittima della famiglia, schierata con con le cosche Imerti-Condello, coinvolta nella sanguinosa seconda guerra di ‘ndrangheta che trasformò Reggio Calabria in un campo di battaglia, lasciando sul terreno centinaia di morti, circa 700. Anche un fratello di Filippo Barreca, Vincenzo, fu ucciso anni dopo per vendetta. Le quattro principali cosche – De Stefano e Libri da una parte, Condello-Imerti dall’altra – si scontrarono per il predominio fino alla pax mafiosa sancita nel 1991 in nome degli “affari” e del nuovo livello di rapporti con lo “Stato”. Quel livello che porterà all’alleanza con la mafia siciliana, all’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, al tacito accordo sulle bombe del ’92 e ’93. Quello stesso livello che riporta indietro al rapimento ed uccisione di Aldo Moro.
Nel frattempo la cosca Barreca, decimata da omicidi e arresti, svaniva. Filippo, in carcere nel 1992 per traffico di droga, decise di collaborare con la giustizia e contribuì a fare luce oltre che sulla dinamiche criminali della città di Reggio Calabria, su decine di omicidi e altre vicende oscure con protagoniste le più potenti cosche della ‘Ndrangheta. Solo per fare alcuni esempi del peso delle dichiarazioni di Filippo Barreca da pentito, citiamo le indagini e il successivo processo per far luce sull’omicidio del deputato Dc e presidente delle Fs Lodovico Ligato, quelle sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Poi i processi al gotha della ‘Ndrangheta reggina, i procedimenti Olimpia 1, 2, 3 e 4. (Segue dopo la foto)

‘Ndrangheta e caso Moro, troppe le coincidenze mai verificate: la foto di ‘Ntoni Nirta “due nasi” in via Fani
‘Ndrangheta e caso Moro, facciamo un passo indietro perché sono troppe le “coincidenze” che legano la criminalità calabrese alla strage di via Fani. Non solo dunque la mancata presenza del capo scorta di Moro di cui parla il pentito Filippo Barreca. Di un’altra presenza inquietante della ‘ndrangheta in via Fani si parla fin dal 1993. Ogni tanto riappare, poi scompare, ma non è mai stata approfondita e tutto lascia intendere che nessun abbia mai voluto farlo davvero.
Tutto parte da una foto che ritrae un uomo sui 30 anni, dalla folta capigliatura e l’attaccatura bassa dei capelli. Secondo il collaboratore di giustizia Saverio Morabito, classe 1952 originario di Platì, senza il quale non sarebbe stato possibile il primo grande processo all’Ndrangheta nel Nord Italia, quest’uomo era Antonio “Ntoni” Nirta, meglio conosciuto come “due nasi” (per la sua predilezione per la lupara) o “L’Esaurito”. Morabito, mentre racconta un ventennio di crimini al magistrato che lo accompagna nel pentimento, il pm Alberto Nobili, si sofferma anche sulla figura di Nirta. Antonio Nirta “Due Nasi”, classe 1946, non è uno qualsiasi. E’ nipote di Antonio Nirta, classe 1919, capostipite della “maggiore”, come è conosciuta a San Luca la cosca che porta il suo cognome. La “mamma” della ‘Ndrangheta. Saverio Morabito ne parla con paura. E Morabito, uno che ammazzava senza scrupoli, non è uomo di facile paura.
Davanti al Pm Nobili Morabito aggiunge che il suo compaesano Domenico Papalia, al tempo detenuto con lui a Bergamo, gli rivelò che “Nirta fu uno degli esecutori materiali del sequestro Moro”. Un segreto di mafia confermatogli anche dal boss Francesco Sergi, da Platì come Morabito, con cui il “manager calibro 9” scalò le gerarchie criminali nella Milano da bere terra di conquista della ‘Ndrangheta. Lo stesso Domenico Papalia poi, secondo quanto riferito in tempi più recenti da altri collaboratori di giustizia in particolare nei processi “‘Ndrangheta stragista” e “Trattativa Stato-Mafia”, sarebbe stato in rapporti con i servizi segreti, e come lui altri presunti boss di primo livello della ‘Ndrangheta, come Domenico Libri potentissimo capocosca di Reggio Calabria.
‘Ntoni Nirta da metà ’70 gravita attorno a Milano, in quel triangolo ormai famoso tra Corsico, Buccinasco e Trezzano sul Naviglio da cui la ‘Ndrangheta inizia la conquista di Milano e della Lombardia. Qui si consumano sequestri, omicidi e quindi dopo la prima ondata di arresti inizia la scalata dei “calabresi di Buccinasco e Corsico” nel mondo del traffico di droga. Nirta come altri “compari” fa dentro e fuori dal carcere: a San Vittore oltre al soprannome di “Due Nasi” si guadagna quello di “Esaurito”. Secondo Morabito, mentre nel 1993 riempie migliaia di pagine di verbali davanti al Pm Nobili, Nirta è uno che parla troppo. Tra i suoi confidenti ci sarebbe il generale dei carabinieri Francesco Delfino, di Platì come Morabito e a due passi da San Luca. Delfino, poi coinvolto in altre oscure vicende come il sequestro Soffiantini, avrebbe risolto alcuni sequestri di persona realizzati dal gruppo di calabresi di Corsico grazie alle soffiate di Nirta. Di qui il passo successivo, Nirta diventa un confidente dei servizi segreti, guarda caso proprio nel periodo in cui vi è distaccato Delfino (dal 1978 al 1987 in forza al SISMI, ndr).
Dunque, secondo il racconto di Morabito l’uomo ritratto nella famosa foto dopo l’agguato di via Fani sarebbe proprio ‘Ntoni “Due Nasi” Nirta. Una conferma viene da un altro pentito “peso massimo” della ‘ndrangheta reggina, Giacomo Ubaldo Lauro, che riconosce il Nirta nella foto del dopo agguato in via Fani pubblicata da un quotidiano. E un’ulteriore e ancor più importante conferma arriva anche da un altro elemento della vicenda, il ferimento di Alessandro Marini, un passante che si trovava in via Fani quando i brigatisti spararono all’auto di Aldo Moro. La vicenda è stata ben spiegata dal Pm romano Antonio Marini in audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro: “Un cittadino mio omonimo, Alessandro Marini, che nel momento dell’agguato si trovava sul suo motorino all’incrocio di via Fani, ha visto passare una moto Honda di grossa cilindrata, da cui sono stati esplosi alcuni colpi contro di lui”. Chi c’era su quella moto? Un testimone raccontò che a sparare fu il passeggero della Honda, che imbracciava un fucile a canne mozze di cui si intravvedeva il calcio. Che strano vero? Proprio l’arma con i “due nasi”.
Scrive L’Espresso, in un articolo ormai datato su questa vicenda: “Il pm Nobili trasmette il verbale (in cui Morabito parla della presenza di Nirta in via Fani, ndr) al collega Marini, che riapre l’indagine sui due in moto. E riascolta una telefonata intercettata durante il sequestro Moro. Un nastro del 1978, ma tenuto segreto fino al 1982. Un parlamentare calabrese della Dc, Benito Cazora, impegnato come tanti a cercare il covo brigatista, spiega al segretario di Moro che la ’ndrangheta può aiutare, ma vuole qualcosa in cambio: «Quelli giù, dalla Calabria» chiedono di «far sparire una foto del 16 marzo, presa lì sul posto», perché si vede «uno di loro… un personaggio noto a loro». L’inchiesta accerta che la profezia calabrese si è avverata. Un fotografo, Gherardo Nucci, ha scattato numerose foto in via Fani subito dopo l’agguato. Il rullino risulta consegnato all’allora pm romano Luciano Infelisi, ma non si trova più: è sparito”.
Suggestioni o cos’altro? Mentre Domenico Papalia, assolto dopo 41 anni per un omicidio del quale si era sempre professato innocente resta in carcere da 47 anni, è iscritto al Partito Radicale da più di trenta, mai ha parlato del caso Moro e mai è stato ascoltato ufficialmente della magistratura nonostante sia stato tirato in ballo a suo tempo dal compaesano Saverio Morabito, il mistero della presenza di Antonio Nirta “Due Nasi” in via Fani quel mattino del 16 marzo 1978 e dei suoi rapporti con i servizi dello Stato resta lì, ancora impenetrabile. E come questo anche molti altri che legano la ‘Ndrangheta alle trame oscure dell’eversione su cui, a parte l’illuminante recente sentenza sul caso dell’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile (di cui parleremo in altro articolo), non ci sono verità giudiziarie. E su cui collaboratori di giustizia ed ex boss (presunti e veri) non parlano più da anni: come Morabito, di cui si son perse le tracce dopo il suo ritorno in carcere per reati comuni nel 2017, e come Papalia che a quasi 80 anni e malato di cancro attende il suo destino al 41 bis nel carcere di Parma. (Segue dopo la foto)

Così la ‘Ndrangheta avvertì un agente della scorta di Aldo Moro e lo salvò
E veniamo all’agente capo della scorta di Aldo Moro “avvisato” dell’agguato di via Fani proprio dalla ‘Ndrangheta. Torniamo alle parole di Filippo Barreca. “Rocco Musolino (boss di Sant’Eufemia dell’Aspromonte ndr) mi disse che aveva salvato un compaesano a lui legato che era il personaggio chiave della scorta di Aldo Moro, facendogli sapere che quel giorno egli non doveva andare a lavorare. Fu proprio quello il giorno dell’eccidio”.
Le parole di Barreca sono trascritte in un verbale dell’8 settembre 2016. L’uomo scampato alla strage di via Fani del 16 marzo 1978 è il vicebrigadiere Rocco Gentiluomo di Sant’Eufemia d’Aspromonte, deceduto sette anni fa. Gentiluomo era il capo-scorta degli agenti che seguivano Aldo Moro. L’agente “assente” nel giorno della strage di via Fani fu sottoposto a due unici interrogatori, sia dal giudice Imposimato nel 1978 sia durante un’audizione della prima Commissione Moro nel 1981 dove, insieme ad altri non di turno il 16 marzo, dichiarerà anche che Moro faceva tutte le volte lo stesso percorso. Dichiarazioni queste subito smentite dalla moglie del presidente Dc, Eleonora.
Filippo Barreca queste parole le ha pronunciate davanti al magistrato Guido Salvini e al tenente colonnello Massimo Giraudo. La testimonianza veniva raccolta ai fini delle indagini che l’ultima Commissione parlamentare sul sequestro e l’omicidio dell’onorevole Moro, stava conducendo. “Ma di queste dichiarazioni – scrive Simona Zecchi su Antimafia Duemila – non c’è traccia in alcuna delle relazioni pubblicate dal 2015 fino alla fine legislatura nel dicembre 2017. Ne fa debole cenno l’ex presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni, quando pone una domanda al procuratore aggiunto di Reggio Calabria il 27 settembre 2017. Lombardo, che con il suo ufficio ha concluso da pochi giorni l’importante processo ’Ndrangheta stragista culminato in una sentenza di condanna, spiega come proprio l’area indicata dell’Aspromonte sia di riferimento alle famiglie di vertice (Nirta, Piromalli, De Stefano, Musolino, Serraino) che già prima del 1970 avevano creato la struttura riservata, parte di quella specie di massoneria che interviene in molti dei cosiddetti “misteri” italiani”.
Può bastare così, ma solo per il momento. Perché dei legami inconfessabili tra ‘Ndrangheta e apparati deviati dello Stato c’è davvero molto altro da raccontare e torneremo a parlarne molto presto.
Articolo pubblicato in origine su Urbanpost.it il 12 agosto 2020, aggiornato e rivisto il 19 agosto 2024 per La Voce Nuova. Foto: @Wikipedia commons e fonti aperte.





