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Francesco Fortugno, 20 anni fa la ‘ndrangheta assassinava il vicepresidente della Calabria

Pochi giorni fa in Calabria si sono svolte le elezioni regionali, in un clima sicuramente diverso da quello di 20 anni fa. Già, perché sono ormai passati vent’anni da quel tragico 16 ottobre 2005, quando la regione e l’Italia intera furono scosse da un omicidio eccellente: Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale, venne assassinato in pieno giorno a Locri, sua città di elezione. L’agguato avvenne all’interno di un seggio elettorale, durante le elezioni primarie del centrosinistra (l’Unione) – un evento pubblico e molto partecipato.
Un killer a volto coperto si avvicinò a Fortugno e gli esplose contro cinque colpi di pistola calibro 9, colpendolo a bruciapelo davanti a numerosi testimoni atterriti. L’esecutore fuggì immediatamente a bordo di un’auto guidata da un complice, lasciando Fortugno agonizzante; trasportato d’urgenza in ospedale, per lui non ci fu nulla da fare. L’omicidio, compiuto in modo così plateale “nel seggio”, davanti alla comunità locale, scatenò sconcerto e indignazione a livello nazionale. Si trattava di uno dei rarissimi casi di eliminazione di un politico di primo piano per mano della ’Ndrangheta, un fatto che segnò profondamente l’opinione pubblica e fece temere un salto di qualità nelle strategie della criminalità organizzata calabrese. Lo stesso Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi volle partecipare ai funerali di Fortugno, a testimonianza della gravità simbolica dell’accaduto.

Fortugno, 54 anni, medico e padre di due figli, era alla seconda legislatura regionale con la Margherita (coalizione di centrosinistra). Stimato nell’ambiente sanitario e politico calabrese, egli aveva mosso i primi passi nella Democrazia Cristiana e poi nel Partito Popolare, per approdare infine alla Margherita. Professionista affermato, era primario (in aspettativa) del Pronto Soccorso all’ospedale di Locri e docente a contratto all’Università di Catanzaro. Proprio la sua competenza in campo sanitario lo aveva portato a ricoprire un ruolo chiave nella commissione Sanità del suo partito e a diventare un punto di riferimento politico in quel settore. Alle elezioni regionali dell’aprile 2005 Fortugno aveva ottenuto un successo inaspettato, risultando eletto con oltre 8.500 preferenze personali, un exploit elettorale che gli valse la nomina a vice presidente del Consiglio regionale della Calabria. Nessuno poteva immaginare che, solo pochi mesi dopo, quel successo avrebbe segnato la sua condanna a morte.

La dinamica del delitto e lo shock pubblico

L’omicidio di Fortugno avvenne in un contesto pubblico e democratico, fatto che aumentò lo sdegno e la preoccupazione collettiva. Quel pomeriggio del 16 ottobre 2005, Fortugno si era recato a votare alle primarie dell’Unione presso Palazzo Nieddu, nel centro di Locri, dove erano stati allestiti i seggi.
Mentre parlava con alcuni conoscenti nell’androne, fu avvicinato dal sicario che gli sparò cinque colpi mortali a bruciapelo, colpendolo al torace. La brutalità e la sfida implicita in un omicidio compiuto in un luogo di voto democratico fecero subito pensare alla mano mafiosa: “Se la criminalità organizzata si rivolge ai più alti vertici istituzionali – stiamo superando un livello di guardia molto pericoloso”, commentò a caldo un esponente politico nazionale, Gianni Alemanno. In effetti gli investigatori non esclusero sin dall’inizio la pista mafiosa, sottolineando come Fortugno – politico di tradizione democristiana senza alcun sospetto di legami criminali – potesse essere vittima di una vendetta o intimidazione di stampo ‘ndranghetista.

La notizia dell’assassinio ebbe un impatto enorme. Mentre le autorità reagivano dispiegando investigatori e inviando il Ministro dell’Interno in Calabria per seguire le indagini, la società civile calabrese manifestò uno sdegno non comune. Nei giorni successivi, migliaia di cittadini – soprattutto giovani e studenti – scesero in piazza a Locri e in altre città, protestando contro la ‘Ndrangheta e gridando il loro “no” alla rassegnazione. Proprio da queste manifestazioni spontanee nacque il movimento antimafia dei giovani “Ammazzateci tutti”, simboleggiato da striscioni che sfidavano provocatoriamente i clan con la frase “E adesso ammazzateci tutti”. Fu una reazione sociale straordinaria per una terra spesso descritta come piegata dal silenzio: il delitto Fortugno divenne catalizzatore di una presa di coscienza collettiva, con i ragazzi calabresi in prima linea nel chiedere giustizia e cambiamento.

Genesi e movente dell’omicidio: politica, sanità e ‘ndrangheta

Se inizialmente il movente del delitto poteva apparire oscuro, col progredire delle indagini emerse uno scenario di collusione mafia-politica di inquietante concretezza. Francesco Fortugno, infatti, sarebbe stato ucciso perché rappresentava un ostacolo agli interessi mafiosi che potenti cosche della Locride e della Calabria ionica intendevano perseguire nell’ambito della sanità regionale e della gestione del potere locale. La sua elezione al Consiglio regionale nel 2005 – con il ruolo di vice presidente e la prospettiva di influire sulle nomine nella sanità calabrese – fu percepita dalle ’ndrine come un evento imprevisto e dirompente, capace di mettere in discussione equilibri politico-economico-mafiosi consolidati da tempo. In particolare, Fortugno avrebbe intralciato un “piano” che la ’Ndrangheta stava coltivando per infiltrarsi ulteriormente nella sanità calabrese, piano basato sull’ascesa politica di un altro candidato locale, Domenico Crea.

Domenico “Mimmo” Crea, politico anch’egli di area Margherita (poi passato al centrodestra), era rimasto fuori dal Consiglio regionale nelle elezioni del 2005, risultando primo dei non eletti proprio dietro Fortugno. Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Reggio Calabria, Crea aveva stretto un “patto scellerato” con le cosche della fascia ionica reggina: in cambio di pacchetti di voti alle elezioni, egli avrebbe garantito ai clan affari, favori e inserimento di uomini fidati nei posti di comando, soprattutto nel settore sanitario. Per la ’Ndrangheta calabrese, determinata ad allungare le mani sul ricco bilancio della sanità pubblica, le regionali del 2005 rappresentavano un’occasione ghiottissima. Crea, secondo gli investigatori dell’antimafia reggina, si era offerto come il garante ideale di questi interessi: in alcune intercettazioni egli stesso illustrava ai collaboratori la “classifica” degli assessorati più ambiti in termini di risorse, mettendo la Sanità al primo posto (con un budget enorme, nell’ordine di diversi miliardi di euro), seguita da Agricoltura e Attività Produttive. “La necessità di mettere le mani su un assessorato era la vera ragione del suo impegno politico”, scrivono i magistrati, sottolineando come Crea fosse ben consapevole delle potenzialità di arricchimento personale offerte da incarichi di governo nella sanità.

Le cosche coinvolte in questo disegno comprendevano alcuni dei clan più influenti della zona: i Morabito-Zavettieri (egemoni ad Africo e Roghudi), i Cordì di Locri e i Talia di Bova Marina. Tutti vedevano in Domenico Crea “il soggetto idoneo a garantire al meglio gli interessi delle cosche, assicurando loro i vantaggi […] conseguenti all’uso distorto di un’importante funzione pubblica”. In sostanza, Crea prometteva ai clan l’accesso privilegiato alla sanità regionale – appalti, convenzioni, accreditamenti di cliniche private, posti di lavoro per affiliati – in cambio del sostegno elettorale necessario a scalare posizioni di potere.

Tuttavia, questo piano mafioso-politico subì un grave inciampo proprio a causa del successo elettorale di Fortugno. Egli, con le sue 8.500 preferenze, conquistò il seggio che avrebbe fatto comodo a Crea e ai clan, e di fatto mandò all’aria i “sogni di ricchezza” di Mimmo Crea nel nuovo governo regionale. La sua presenza in Consiglio e la sua influenza nel settore sanitario (Fortugno era considerato vicino all’area che avrebbe deciso le nomine dei direttori generali delle ASL commissariate nell’estate 2005) minacciavano di rompere o almeno ridimensionare gli equilibri spartitori su cui le cosche contavano. Fu così – sostengono inquirenti e sentenze – che i clan decisero di eliminare fisicamente Fortugno, pochi mesi dopo la sua elezione, cogliendolo in un momento pubblico (il giorno delle primarie dell’Unione) per massimizzare l’effetto intimidatorio.

Grazie alle rivelazioni dei successivi collaboratori di giustizia, oggi la ricostruzione del movente è chiara e drammatica: Fortugno “pagò con la vita” la sua inaspettata elezione, che aveva infranto i piani della ’Ndrangheta nella sanità calabrese. In particolare, emerse che Alessandro Marcianò (caposala dell’ospedale di Locri) e suo figlio Giuseppe Marcianò (infermiere), personaggi vicini al clan Cordì di Locri, erano stati i promotori locali del sostegno a Domenico Crea. Alessandro Marcianò, in quanto influente caposala, si era impegnato a raccogliere almeno 700 voti per Crea nel bacino di Locri. Ma i risultati elettorali disattesero queste aspettative – a Locri Crea andò malissimo – esponendo i Marcianò a una figuraccia agli occhi sia del candidato sia dei clan che su di lui puntavano. Sentendosi “screditati” e timorosi di perdere future opportunità di arricchimento, i Marcianò decisero di farsi perdonare il fiasco consegnando ai clan una compensazione brutale: ordire l’omicidio di Fortugno per far subentrare Crea al suo posto in Consiglio. Le sentenze dei giudici (giudizio di primo grado confermato in appello) hanno sancito proprio questa dinamica: “L’omicidio dell’onorevole Fortugno è stato ideato e voluto per sanare la defaillance [elettorale dei Marcianò] che avrebbe nuociuto ai Marcianò sotto il profilo economico […] rendendoli personaggi non più affidabili e quindi impossibilitati a riproporre i loro servigi nelle successive consultazioni elettorali”. In altre parole, uccidendo Fortugno i mandanti intendevano riacquistare credito verso Crea e le cosche, assicurandosi che Crea entrasse in Consiglio e potesse ancora favorirli. E così avvenne: dopo la morte di Fortugno, Domenico Crea – che era il primo dei non eletti – subentrò automaticamente come consigliere regionale.

È importante notare che questo movente politico-mafioso emerse con chiarezza solo col tempo. Nelle prime fasi investigative era circolata anche l’ipotesi di un risentimento personale di Alessandro Marcianò nei confronti di Fortugno (i due si conoscevano bene, lavorando entrambi nell’ospedale di Locri, ed erano persino in rapporti di comparaggio di nozze). Un pentito riferì che Fortugno sarebbe stato ucciso perché voleva denunciare un’estorsione subita nell’ambito sanitario. Tuttavia, col progredire delle indagini, la pista principale si è consolidata attorno al patto politico-mafioso legato alle elezioni regionali e agli interessi sulla sanità. Le complesse relazioni personali (Fortugno e i Marcianò erano in realtà vicini di lavoro e famiglie in rapporti cordiali) rendono ancora più inquietante il quadro: il tradimento maturò all’interno di un ambiente di conoscenze reciproche, segno di quanto la ’Ndrangheta sappia infiltrarsi e strumentalizzare anche rapporti di fiducia personale pur di perseguire i propri scopi.

La ’Ndrangheta a Locri e l’infiltrazione della sanità calabrese

Il delitto Fortugno ha acceso i riflettori sul contesto ’ndranghetista di Locri e, più in generale, sulla pervasività delle cosche nella sanità calabrese. La città di Locri e l’intero comprensorio della Locride sono storicamente roccaforti della ’Ndrangheta: qui operano da decenni potenti ’ndrine come la famiglia Cordì e la contrapposta famiglia Cataldo, protagoniste in passato di sanguinose faide per il controllo del territorio. Già negli anni ’70-’80 la Locride fu teatro di sequestri di persona e guerre di mafia; nei decenni successivi i clan locali hanno ampliato i loro traffici (dal narcotraffico internazionale all’estorsione e all’infiltrazione negli appalti pubblici) diventando tra i gruppi mafiosi più ricchi e organizzati. La ‘Ndrangheta, pur mantenendo un basso profilo di fronte all’opinione pubblica (a differenza di Cosa Nostra raramente attacca lo Stato con azioni clamorose), ha consolidato una penetrazione capillare nell’economia e nelle istituzioni locali. La Locride, in particolare, presenta tassi preoccupanti di condizionamento mafioso: numerosi consigli comunali dell’area sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose negli ultimi decenni, a riprova di elezioni e amministrazioni condizionate dalle cosche. La Calabria detiene il record nazionale di enti locali commissariati per mafia (136 comuni sciolti dal 1991 al 2025). Proprio nella Locride comuni come Siderno, Gioiosa Jonica, Platì (tra gli altri) hanno subìto ripetuti scioglimenti, evidenziando il controllo criminale del voto e della vita amministrativa in quella zona.

Un settore particolarmente appetibile per la ’Ndrangheta è quello della sanità pubblica. Le aziende sanitarie calabresi gestiscono budget enormi e offrono migliaia di posti di lavoro, appalti e convenzioni – un terreno fertile per clientele e affari illeciti. Sin dagli anni ’90 si sono registrati casi di collusione tra dirigenti sanitari, politici e clan mafiosi (emblematico fu lo scandalo denominato “onorata sanità” già negli anni ’90, che rivelò commistioni tra boss e amministratori locali). Nel caso di Locri, gli eventi seguiti all’omicidio Fortugno hanno confermato l’estrema vulnerabilità del sistema sanitario locale: nel 2006 l’intera ASL n.9 di Locri (azienda sanitaria locale) venne sciolta e commissariata per infiltrazioni mafiose. Ciò significava che l’ente pubblico responsabile di ospedali e strutture sanitarie sul territorio locrese era talmente condizionato da interessi criminali da richiedere l’intervento straordinario dello Stato.

L’indagine denominata “Onorata Sanità” (2008) – scaturita anche dai fatti di Locri – ha svelato nei dettagli come la ’Ndrangheta avesse messo le mani sulla sanità calabrese con la complicità di politici e colletti bianchi. Proprio Domenico Crea ne fu uno dei protagonisti negativi: arrestato nel 2008, Crea venne accusato e poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, avendo garantito favori e appalti ai clan in cambio di sostegno elettorale. Nell’operazione furono coinvolte 18 persone, tra cui il figlio di Crea (direttore sanitario di una clinica privata di famiglia, la “Villa Anya”, che avrebbe ottenuto indebiti accreditamenti col sistema sanitario pubblico) e vari funzionari regionali e dell’ASL. Emersero episodi clamorosi: la clinica privata dei Crea, pur priva dei requisiti di legge, riuscì ad essere accreditata grazie a pressioni e falsi, e vennero persino indagate morti sospette di pazienti al suo interno. L’inchiesta dimostrò come la rete di Crea coinvolgesse boss del calibro di Giuseppe “Tiradrittu” Morabito (capo storico dell’Africo) e le cosche di Locri, e come “appalti, convenzioni, possibilità di inserire uomini propri nelle istituzioni” fossero il vero bottino che la ’Ndrangheta inseguiva attraverso il controllo della politica. A conferma di ciò, nelle conversazioni intercettate, Crea si lamentava che l’elezione di Fortugno avesse temporaneamente frustrato questi piani di arricchimento, ma vantava ugualmente di aver piazzato uomini e ottenuto risultati, come appunto l’accreditamento irregolare della clinica di famiglia.

In definitiva, il contesto di Locri nel 2005 presentava tutti gli elementi tipici di una profonda infiltrazione mafiosa nel sistema politico-amministrativo: clan radicati sul territorio e ramificati nel mondo degli affari, capacità di influenzare il consenso elettorale, penetrazione nelle strutture sanitarie pubbliche e private per drenare risorse finanziarie. L’omicidio Fortugno, con la sua carica simbolica, ha portato alla luce questo intreccio perverso. Ha mostrato come la ’Ndrangheta, pur solitamente silente, sia pronta a colpire in modo eclatante quando i suoi interessi economici e di potere sono minacciati. E ha evidenziato il bisogno di bonificare la sanità calabrese da logiche clientelari e criminali: un compito che resta complesso, ma verso cui l’attenzione pubblica è cresciuta anche grazie al sacrificio di Fortugno.

Il controllo criminale delle elezioni locali

Il caso Fortugno è un esempio estremo di come la ’Ndrangheta possa spingersi a controllare le elezioni e condizionare la democrazia locale. In Calabria, soprattutto in alcune aree come la Locride, i clan considerano il momento elettorale un’opportunità per rafforzare il proprio potere. Il voto di scambio politico-mafioso è una pratica diffusa: i boss promettono pacchetti di voti ai candidati (spesso di entrambi gli schieramenti, per assicurarsi comunque un interlocutore vincente), e in cambio ottengono impegni su favori futuri – appalti pilotati, posti di lavoro per affiliati, indulgenza nei controlli, concessioni edilizie e così via. Questo modus operandi porta all’elezione di amministratori ricattabili o direttamente collusi, e spiega l’alto numero di consigli comunali commissariati in Calabria.

Nel caso specifico delle elezioni regionali 2005, come abbiamo visto, le cosche ionico-reggine avevano puntato su Domenico Crea, considerandolo l’uomo adatto a portare le loro istanze nelle istituzioni. Secondo le indagini, Crea si fece avanti offrendo un patto: voti in cambio di potere e affari. Non a caso, dopo l’omicidio Fortugno, emerse che “alle regionali del 2005 [Crea] garantì alle cosche affari e favori in cambio di voti”. Il suo clamoroso insuccesso iniziale a Locri (dove i clan locali come i Cordì si erano spesi per lui) generò la reazione violenta di cui abbiamo parlato. Questo evidenzia come i clan monitorino attivamente l’andamento delle consultazioni elettorali e intervengano se l’esito non è conforme ai patti stretti. L’eliminazione di Fortugno fu un caso limite – un delitto politico-mafioso cruento – ma il controllo criminale delle elezioni può assumere anche forme più striscianti: intimidazione di elettori, compravendita di voti, candidati “di riferimento” dei clan piazzati nelle liste.

A Locri e dintorni, già prima del 2005, vi erano stati segnali di voto inquinato. Commissioni d’accesso inviate dal Ministero dell’Interno avevano rilevato anomalie in diversi comuni, e la presenza di parenti di boss o loro prestanome tra i consiglieri comunali era tutt’altro che rara. Dopo il caso Fortugno, l’attenzione su questi fenomeni si intensificò. Le inchieste successive (come Onorata Sanità e altre operazioni antimafia) hanno portato alla luce sistemi organizzati di controllo del voto. Ad esempio, dalle carte dell’indagine del 2008 risulta che Crea era considerato referente non solo dai clan di Locri ma anche da famiglie mafiose di zone limitrofe (Africo, Bova, Roghudi), segno di un coordinamento criminale su vasta scala per la partita elettorale. Inoltre, l’indagine ha coinvolto persino un ex assessore regionale alla Sanità (Gianfranco Luzzo) e funzionari pubblici, a indicare che l’influenza delle cosche poteva estendersi ai vertici della burocrazia regionale. In sintesi, il controllo mafioso delle elezioni amministrative in Calabria è un problema strutturale: i clan agiscono come agenzie occulte di consenso, assicurandosi che chi viene eletto sia funzionale ai propri interessi. Ciò costituisce un grave vulnus al principio democratico e alimenta quel circolo vizioso per cui la cattiva amministrazione (condizionata dalla mafia) genera disservizi e malaffare, che a loro volta rafforzano la presa della criminalità organizzata sul territorio.

Indagini, processi e colpevoli

Le indagini sull’omicidio Fortugno furono immediate e serrate. Già nei primi mesi emersero elementi grazie a coraggiosi collaboratori di giustizia, che permisero di fare luce sui mandanti. Il 21 marzo 2006, a soli cinque mesi dal delitto, i Carabinieri arrestarono nove sospetti ritenuti coinvolti a vario titolo nell’omicidio. Tra questi figuravano giovani affiliati alla ’ndrangheta locrese – come Salvatore Ritorto (27 anni, poi identificato come esecutore materiale dell’assassinio) – e altri soggetti di Locri accusati di aver preso parte alla pianificazione o di appartenere alle cosche responsabilii. Pochi mesi dopo, il 21 giugno 2006, scattarono le manette anche per i due principali sospettati come mandanti: Alessandro Marcianò, caposala dell’ospedale di Locri, e suo figlio Giuseppe Marcianò, infermiere. L’arresto dei Marcianò – figure insospettabili dell’establishment sanitario locale – confermò la pista del complotto interno all’ospedale e legato ai clan. I Marcianò, secondo gli inquirenti, avrebbero infatti agito in accordo con la cosca Cordì, da sempre egemone a Locri anche in seguito ad una lunga e sanguinosa faida con gli avversari Cataldo, e altri sodali per orchestrare il delitto.

Nel corso del 2007, mentre si preparava il processo, avvennero altri episodi degni di nota: il movimento “Ammazzateci Tutti” chiese e ottenne di costituirsi parte civile nel dibattimento, affiancandosi a Regione, Provincia e Comune di Locri come segnale forte della società civile. Nell’ottobre 2007, però, uno dei due pentiti chiave dell’inchiesta – Bruno Piccolo – morì suicida in circostanze drammatiche, episodio che destò ulteriore turbamento (anche se le altre testimonianze rimasero agli atti, permettendo al procedimento di proseguire).

Il processo di primo grado si concluse il 2 febbraio 2009 presso la Corte d’Assise di Locri, con un verdetto esemplare: condanna all’ergastolo per i quattro principali imputati. Furono dichiarati colpevoli e condannati al carcere a vita: Alessandro Marcianò e il figlio Giuseppe Marcianò (riconosciuti come mandanti dell’omicidio), Salvatore Ritorto (l’esecutore materiale, il killer che sparò a Fortugno) e Domenico Audino (ritenuto complice nell’agguato). Altri imputati minori vennero condannati per reati connessi all’associazione mafiosa: ad esempio Vincenzo Cordì, Carmelo e Antonio Dessì, coinvolti nella trama, ricevettero pene detentive per associazione mafiosa o favoreggiamento. La sentenza di primo grado riconobbe dunque in pieno l’impianto accusatorio, affermando la matrice ‘ndranghetista e politico-affaristica del delitto. All’uscita del verdetto, Maria Grazia Laganà – vedova di Fortugno, nel frattempo divenuta deputata – dichiarò che le indagini dovevano continuare, convinta che “ci siano fatti che devono ancora emergere”, lasciando intendere possibili ulteriori retroscena non del tutto chiariti. Significativo fu anche notare che nessun esponente politico di rilievo né rappresentante del movimento antimafia fosse presente in aula alla lettura della sentenza, segnale forse di un isolamento istituzionale che la famiglia Fortugno ha sentito attorno a sé.

Il processo d’appello si concluse il 24 marzo 2011 a Reggio Calabria, confermando sostanzialmente tutte le condanne principali. La Corte d’Assise d’Appello ribadì l’ergastolo per Alessandro e Giuseppe Marcianò (padre e figlio), per Salvatore Ritorto e Domenico Audino. In questa fase emerse però insufficienza di prove nei confronti di alcuni comprimari: vennero assolti “per non aver commesso il fatto” Vincenzo Cordì e Carmelo Dessì (che infatti furono scarcerati). Restava dunque definitivamente accertata la colpevolezza dei quattro principali responsabili.

L’iter giudiziario è proseguito fino al terzo grado. Il 3 ottobre 2012 la Corte di Cassazione si pronunciò confermando in via definitiva le condanne all’ergastolo di Giuseppe Marcianò, Salvatore Ritorto e Domenico Audino. Per Alessandro Marcianò, ritenuto il principale mandante, la Cassazione dispose inizialmente un annullamento con rinvio – cioè un nuovo processo d’appello – ritenendo che vi fossero punti da riesaminare riguardo alla sua posizione. Tuttavia, nel luglio 2013, anche il secondo giudizio d’appello confermò nuovamente la colpevolezza di Alessandro Marcianò, ribadendo l’ergastolo, e l’8 luglio 2014 la Cassazione pose la parola fine al caso rendendo definitivo il carcere a vita per Alessandro Marcianò. Complessivamente, dunque, quattro persone sono state condannate all’ergastolo in via definitiva per l’assassinio di Francesco Fortugno.. Si tratta – val la pena ribadirlo – di due insospettabili operatori sanitari legati ai clan (i Marcianò) e due giovani affiliati (Ritorto e Audino), a riprova dell’intreccio tra colletti bianchi locali e manovalanza mafiosa nell’esecuzione del delitto.

Parallelamente al processo per l’omicidio, la giustizia ha colpito anche i mandanti indiretti e i protagonisti del sistema corruttivo emerso dal caso Fortugno. Domenico Crea, protetto politico delle cosche e beneficiario “postumo” dell’eliminazione di Fortugno, è stato processato separatamente nell’ambito dell’operazione Onorata Sanità: nel 2011 è stato condannato a 11 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, riconosciuto colpevole di aver messo la sua funzione pubblica al servizio dei clan. La condanna di Crea, nel frattempo scarcerato per motivi di salute, è stata poi ridotta a 7 anni e 6 mesi nel processo d’appello, pena confermata definitivamente anche dalla Cassazione nel gennaio del 2014. Nell’ambito della stessa inchiesta sono stati condannati anche suoi familiari e vari complici nella pubblica amministrazione. Questo significa che, a distanza di anni, tutti i principali attori di questa vicenda hanno ricevuto una risposta giudiziaria: sia gli esecutori materiali e mandanti diretti del delitto, sia i cospiratori collusi che intendevano sfruttare la politica per scopi criminali. Resta, in controluce, la domanda su eventuali ulteriori livelli di responsabilità: alcune fonti giornalistiche hanno suggerito che “chi diede davvero l’ordine di ammazzare l’onorevole?” resti ancora un interrogativo aperto. Di certo, però, la verità giudiziaria ha sancito che dietro l’omicidio vi fu un complotto di ’ndrangheta legato a logiche di potere e denaro, e su questo fronte la memoria di Fortugno rappresenta un monito indelebile.

L’eredità del caso Fortugno

A quasi vent’anni da quel tragico 16 ottobre 2005, l’omicidio di Francesco Fortugno rimane una delle pagine più oscure e al contempo più significative nella storia recente della Calabria. Oscura, perché ha svelato quanto in profondità la ’Ndrangheta fosse riuscita a penetrare nelle istituzioni, arrivando a sopprimere un alto rappresentante politico per tutelare i propri interessi. Significativa, perché ha scosso le coscienze, generando una reazione sociale senza precedenti in una terra troppo spesso assuefatta alla paura. Il sacrificio di Fortugno ha portato all’avvio di indagini fondamentali che hanno decapitato una rete politico-affaristica mafiosa nella sanità regionale. Sul piano simbolico, ha ispirato una nuova generazione di attivisti antimafia: il movimento dei giovani di Locri, nato in quei giorni dolorosi, continua ancora oggi a testimoniare la voglia di riscatto e legalità (molti di quei ragazzi di “Ammazzateci tutti” sono cresciuti e alcuni si sono impegnati in politica o nel sociale per cambiare le cose).

Politicamente, il caso Fortugno ha innescato dibattiti e provvedimenti sulla trasparenza nelle nomine sanitarie e sul contrasto al voto di scambio. A livello nazionale, è servito a ricordare che la ’Ndrangheta – pur silenziosa e “imprenditrice” – è capace di gesti sanguinari se minacciata, e che la lotta alle mafie non può mai abbassare la guardia. La vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà, divenuta parlamentare, si è fatta promotrice di iniziative legislative anticorruzione e in memoria del marito ha spesso ripetuto l’appello a “non dimenticare e continuare a cercare tutta la verità”.

In definitiva, l’omicidio Fortugno rappresenta un tragico spartiacque: da un lato ha mostrato fin dove può arrivare il controllo criminale sulle elezioni e sulla pubblica amministrazione, dall’altro ha stimolato anticorpi civili importanti. La lezione che se ne trae è duplice. Primo, che la democrazia può essere vulnerabile in contesti ad alta densità mafiosa, e richiede pertanto vigilanza costante, leggi rigorose (come quella sullo scioglimento dei comuni per mafia, applicata anche all’ASL di Locri) e un rinnovamento etico della politica locale. Secondo, che la società civile, quando trova il coraggio di reagire – come fecero i giovani di Locri – può rompere il muro dell’omertà e isolare i poteri criminali. Oggi Locri ricorda Francesco Fortugno non solo come una vittima della ’Ndrangheta, ma come un simbolo di legalità e un punto di non ritorno nella presa di coscienza collettiva: il suo sangue ha fatto germogliare una nuova speranza di cambiamento, che la Calabria onesta ha il dovere di coltivare giorno dopo giorno.

Nota metodologica

Questo articolo si basa su atti giudiziari e resoconti giornalistici dell’epoca, tra cui il memoriale VittimeMafia articoli de La Repubblica, Il Manifesto e Il Corriere della Sera, il dossier Onorata Sanità e le sentenze dei processi di Locri e Reggio Calabria. In particolare, si sono consultati la ricostruzione di Claudio Cordova (Strill.it) riportata da VittimeMafia e l’approfondimento pubblicato su il Manifesto il 29 gennaio 2008, che dettagliava il patto mafia-politica dietro il delitto Fortugno. Questi ed altri contributi convergono nel documentare come la morte di Fortugno sia maturata all’incrocio tra criminalità organizzata, malaffare nella sanità e distorsione del libero esercizio del voto. Le risultanze processuali finali – con quattro ergastoli confermati – hanno posto fine a un capitolo giudiziario doloroso, ma la sfida di estirpare le infiltrazioni della ’Ndrangheta dalla vita pubblica calabrese continua tuttora.