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Difendersi costa, ma disarmarci costerà molto di più

«Rinunciare alla difesa significa rinunciare alla minima sicurezza sociale e vitale». Francesco Sisci lo scrive senza giri di parole su Formiche, e la sua analisi, per quanto spietata, centra un punto che in Italia tendiamo a rimuovere: ci stiamo disarmando non solo militarmente, ma moralmente, economicamente e, peggio ancora, esistenzialmente. Come se fossimo un Paese in attesa del peggio, troppo stanco per opporsi, troppo diviso per reagire.

In un momento in cui Stati Uniti, Unione Europea e persino il Regno Unito chiedono all’Italia un impegno maggiore sulla difesa (che non significa mandare truppe al fronte, ma investire risorse e visione strategica), il nostro Paese continua a esitare. Eppure la Polonia, che vuole contare nella leadership europea, ha già portato il bilancio della difesa al 5% del Pil, puntando al 6%. L’Italia, se tutto va bene, arriverà al 2%. Ma come? Con quali risorse? E, soprattutto, con quale volontà politica?

Sisci non fa sconti: l’Italia, oggi, non vuole difendersi perché forse, sotto sotto, non sente di avere nulla da difendere. È un’accusa feroce, che suona come una diagnosi terminale. Una società che non fa più figli, da cui emigrano i giovani migliori, dove l’astensione supera il 50% e dove chi può evade le tasse. In altri termini, una società che ha smesso di credere in sé stessa. Anche Giorgia Meloni, in questo contesto, appare incagliata. Il suo consenso resiste proprio perché non smuove le acque, ma questo immobilismo la condanna a non incidere. L’Italia resta fuori dai veri tavoli che contano, quelli della NATO e della UE, perché si rifiuta di fare i compiti, proprio quelli che Bruxelles chiede da anni: riforme, liberalizzazioni, fine delle consorterie che strangolano l’economia e paralizzano la crescita. Così facendo, il nostro campo d’azione si restringe sempre di più, fino a ridursi a un “minimo sindacale” in cui l’unica voce è quella della premier. Ma una voce sola, per quanto determinata, non basta.

A inquietare di più è la fotografia sociale. I grandi imprenditori hanno portato i soldi (e la sede fiscale) altrove. Le imprese che restano sono in gran parte pubbliche o para-statali. I sindacati difendono sé stessi. La piccola imprenditoria cerca di sopravvivere. I giovani emigrano. E la politica? Sembra parlare a vuoto, senza più un pubblico. In questo scenario, Sisci pone una domanda che è anche un monito: chi farà il miracolo? Perché solo un miracolo potrebbe invertire una rotta che ci porta, lentamente ma inesorabilmente, a spegnerci. Non ci sono più energie fresche, né reali spinte riformatrici. La rivoluzione, suggerisce con ironia amara, dovrebbero farla i pensionati. Ma il punto è proprio questo: non c’è più la forza sociale per cambiare.

Riconoscere questo stato di cose non significa arrendersi, ma smettere di raccontarsela. Non serve una retorica bellicista, serve realismo. L’Italia, se vuole contare, deve tornare a credere in sé stessa. Deve riaccendere quel barlume di orgoglio civile che fa dire: sì, abbiamo qualcosa da difendere. Ma prima ancora, dobbiamo decidere se vogliamo continuare a esistere come Paese, come comunità, come idea.