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Affluenza bassa al Referendum: tutta in salita la rincorsa al quorum, urne aperte fino alle 15

Un’altra domenica di democrazia a metà. I cinque referendum sul lavoro e sulla cittadinanza promossi da Cgil e centrosinistra arrancano verso un quorum che, salvo miracoli dell’ultim’ora, appare irraggiungibile. La giornata elettorale di domenica 8 giugno si è chiusa con un dato di affluenza desolante: alle 23 aveva votato solo il 22,7% degli aventi diritto. Una soglia troppo bassa per sperare in una vittoria, soprattutto se confrontata con il 41% dell’ultimo referendum valido, quello sull’acqua pubblica del 2011.

Il flop era nell’aria: la doccia fredda già a mezzogiorno

Alle 12 l’affluenza era al 7,4%, lontanissima da quel minimo sindacale di partecipazione che avrebbe potuto alimentare speranze. Nel 2011, per dire, si era già all’11,6%. Inutili gli appelli a “votare prima delle 11” lanciati in ogni angolo del web: nessuna onda d’urto, nessun effetto valanga. Alle 19 si era saliti solo al 16,2%, poco più della metà del dato registrato nel 2011 alla stessa ora (30,3%). Una lenta agonia che ha accompagnato la giornata elettorale fino al suo mesto epilogo.

Cosa c’era in gioco? Jobs Act, cittadinanza e simboli politici

I quesiti referendari riguardavano nodi delicati: dal superamento del Jobs Act, al reinserimento dell’articolo 18, passando per la possibilità di accedere alla cittadinanza dopo meno di dieci anni di residenza in Italia. Temi centrali per il sindacato e per una parte del centrosinistra, ma evidentemente non abbastanza mobilitanti per gran parte dell’elettorato, complice una campagna referendaria senza fuochi d’artificio.

Obiettivo minimo: 12,3 milioni di “sì”

Il quorum dei votanti (50% + 1) sembra ormai sfumato, ma il fronte progressista prova a spostare l’asticella. Ora l’obiettivo è almeno simbolico: raggiungere 12,3 milioni di voti favorevoli, pari ai consensi ottenuti da Giorgia Meloni alle ultime Politiche. Non sarebbe una vittoria, ma una bandiera da sventolare, un segnale da rilanciare. Un modo per dire: “Siamo vivi, siamo tanti”, anche se non abbastanza per cambiare la legge.

Giornata tranquilla, con le solite anomalie

Il voto si è svolto senza grandi incidenti, ma con qualche inciampo sparso qua e là. A Roma è scoppiata la polemica per un seggio inaccessibile a disabili e anziani, segnalato da Rachele Mussolini, consigliera di Forza Italia. A Taranto il Pd ha denunciato una presunta violazione del manuale operativo, con presidenti di seggio che avrebbero chiesto esplicitamente se si volesse ricevere anche le schede referendarie. Infine, l’immancabile capitolo delle dichiarazioni di voto a urne aperte, tra furbizie istituzionali e messaggi sottintesi.

Meloni non vota ma non rinuncia a farsi vedere

La premier Giorgia Meloni ha deciso di recarsi al seggio senza ritirare le schede referendarie. Un gesto che le opposizioni hanno bollato come “furbata”, utile a non contribuire al quorum pur mantenendo la narrativa del diritto-dovere esercitato. Una mossa studiata, quasi chirurgica. Dall’altra parte, Elly Schlein ha votato a Testaccio, simbolicamente al mattino, e Sergio Mattarella ha votato nel pomeriggio a Palermo, nel suo abituale seggio.

Landini, il promotore, trova il seggio deserto

Tra i più esposti nella campagna referendaria, Maurizio Landini si è presentato a San Polo d’Enza (Reggio Emilia), dove ha votato nel primo pomeriggio. È arrivato a piedi, ma davanti al seggio ha trovato il nulla cosmico: un’aula praticamente deserta. Un’immagine amara, perfetta sintesi dello stato di salute del referendum e, forse, della partecipazione democratica in Italia.