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Perché gli agricoltori sono in protesta da giorni?

Protesta agricoltori, “La nostra fine, la vostra fame”, “Prezzo minimo garantito al produttore”, “Il cibo non nasce in laboratorio” o “Se la PAC non cambia occupiamo”, sono solo alcuni dei cartelloni che da settimane scortano l’avanzata dei trattori per le vie d’Europa. Diretti alle piazze del potere, da Bruxelles a Berlino, contestano la PAC o Politica Agricola Comune, quell’insieme di norme che correlano l’accesso ai fondi europei al rispetto di stringenti requisiti ambientali, bollati dagli agricoltori come anti-economici. In Italia le rivendicazioni coinvolgono anche, soprattutto, lo strapotere della grande distribuzione organizzata, fautrice non di rado di pratiche sleali, l’esplosione post-pandemica dei costi di produzione e la concorrenza dei prodotti importati. Una protesta che si espande a macchia d’olio fino a saturare anche l’incertezza degli osservatori più riduttivi: è esplosa una miccia dalle lunghe fila, più lunghe di quanto il campo visivo del presente lasci trasparire…

Trattori in protesta per le vie europee

Prostesta agricoltori, perché? Per i soliti e unici veri problemi

Protesta agricoltori: in Europa, sfilate di mezzi pesanti, blocchi al transito autostradale, statue divelte, pneumatici bruciati fino a letame e uova contro palazzi governativi. La varietà delle modalità espressive, perlopiù pacifiche, riflette l’eterogeneità dei manifestanti e la frammentazione delle richieste avanzate. Grandi consorzi e piccole imprese a conduzione familiare si confondono in un mosaico del malcontento le cui tessere si incastrano a fatica. Specialmente, quando più della metà dei sussidi europei stanziati (il 54,2%) -e sono tanti pensando che l’EU destina circa un terzo del proprio bilancio a sostegno del settore agricolo- vengono accaparrati da una ristretta élite di imprese ad alto fatturato, equivalente al 10% di agricoltori più facoltosi. Mentre al 50% di agricoltori più poveri rimangono le briciole, un misero 6,3% (Elaborazioni statistiche ISPI 2024). Un dato allarmante se si tiene conto che i sussidi comunitari vanno a formare, in media, il 20% dei loro redditi.

E, perché allora gli agricoltori non protestavano prima? O, perlomeno, non con la stessa incandescenza di oggi, si potrebbe obiettare. Perché, nonostante le difficoltà, o, per essere più chiari, nonostante la mancata remunerazione di quanto loro spetta, il sistema si reggeva a fatica su delicati equilibri. Equilibri andati in frantumi. Da cinque anni, l’intero comparto agroalimentare è alle prese con sfide inedite. Dapprima, le ricadute geo-politiche della pandemia sulle catene di rifornimento hanno generato l’innesto di spirali inflazionistiche, aggravate dalla guerra in Ucraina e, soprattutto, come spiega Fabio Ciconte, massimo esperto di sistemi alimentari e fondatore dell’associazione Terra!, dietro ai rincari dei prezzi delle materie prime c’è lo zampino della finanza. Strumenti finanziari, quali i futures, connessi a derrate alimentari, ad esempio il grano, hanno fatto gola a grandi masse di capitali, attirate da previsioni di guerra inflazionistiche. L’epilogo del giochino lo conosciamo tutti, un po’ come il petrolio e l’oro, i cereali si sono prestati alla compra-vendita speculativa (vedi volume “L’ipocrisia dell’abbondanza”). Fattori che hanno determinato il crollo del sistema e la ferocia delle proteste, le quali però hanno origini ben più datate.

A dispetto di quanto vorrebbe far credere il consueto vittimismo dei politicanti nostrani: «È tutta colpa dell’ecologismo ideologico imposto dall’Europa!» li si sente gridare adirati da giorni immemori, la questione è più complessa. Figuriamoci se non colgono l’occasione di usare il solito capro espiatore quando i vincoli ambientali sono solo una parte -mai ancora applicata peraltro, viste le vicissitudini belliche dell’anno passato- degli sforzi cui gli agricoltori sono chiamati. Richieste votate alla transizione ecologica, sacrosante, quanto lo sono le istanze degli agricoltori, anello debole della filiera agroalimentare. La transizione ecologica ha un costo e “potrà affermarsi solo quando apparirà socialmente desiderabile” diceva Alex Langer, cosa non sta facendo la politica per renderla tale?

La testimonianza di Kevin Cerri, agricoltore in protesta

«Faccio un esempio, se il grano all’agricoltore viene comprato a 25€ al quintale, come te lo spieghi il pane a 6€ al kg? Dove vanno a finire tutti quei soldi tra contadino e vendita al dettaglio?» dichiara raggiunto al telefono da La Voce Nuova Kevin Cerri, titolare di un’attività moltiplicatrice di semente. E ancora: «Tutto mi costa di più, il gasolio agricolo dei trattori, l’energia, i fertilizzanti e i pesticidi. Inizialmente pensavamo che questi rincari fossero dovuti alla pandemia, i mercati erano rimasti fermi ed era plausibile che ci volesse del tempo affinché si rimettessero in moto, ma ora non ce lo spieghiamo». La voce è quella di un giovane agricoltore, spaesata dalla situazione contingente ma spinta a non desistere. Vuole capire, andare a fondo e mandare un messaggio chiaro: «Il problema sostanziale è che noi agricoltori vogliamo essere pagati il giusto per quel che produciamo, vogliamo che si tenga conto degli elevati costi di produzione ai quali siamo sottoposti e che ci sia meno burocrazia, insostenibile per una piccola attività a conduzione familiare come la mia». Durante la chiacchierata giudica di difficile soddisfacimento le nuove condizioni ecologiste avanzate dall’Europa- mantenere il 4% dei terreni a riposo per tutelare la biodiversità e ridurre l’uso dei pesticidi- ma si dichiara anche aperto ad un compromesso se venisse remunerato in maniera equa dal mercato. La chiave del rompicapo in cui le filiere europee sono cadute sembra essere tutta li.

Il cartellone di un corteo di agricoltori in protesta

Protesta agricoltori: l’Europa risponde, il governo italiano farfuglia

Protesta agricoltori, cosa dicono le istituzioni europee? «La proposta è diventata un simbolo di polarizzazione. Gli agricoltori hanno bisogno di un’argomentazione commerciale valida per le misure di miglioramento della natura, e forse noi non l’abbiamo fatta in modo convincente» è il mea culpa di Ursula von der Leyen, Presidente della commissione europea, a margine del consiglio europeo straordinario tenuto a seguito delle proteste. Si riferisce alla proposta avanzata dalla Commissione nel 2022 -non ancora applicata- finalizzata a dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030. Proposta ora ritirata. Deroga approvata anche per la coltivazione del 4% dei terreni a riposo. Obiettivi ambiziosi che restano necessari, utili a spezzare il circolo vizioso in cui vessa lo stato del suolo europeo, devastato dai cambiamenti climatici e impoverito dagli stessi pesticidi. Si stima che il settore agricolo pesi per oltre il 10% delle emissioni inquinanti del vecchio continente, percentuale esacerbata in maggior quantità dagli allevamenti intensivi (European Environmental Agency). Gli agricoltori sono dunque carnefici e vittime al tempo stesso. Importanti novità anche sul fronte della competizione internazionale: l’EU frena l’accordo commerciale con il Mercosur (Paesi dell’America Latina). I recenti passi indietro di Bruxelles rappresentano una strategia d’emergenza, utile a mitigare il conflitto sociale. Quella di lungo periodo è in mano al Dialogo Strategico sul futuro dell’agricoltura EU. «Sono certa che l’unica via per superare la polarizzazione sia attraverso il dialogo. Intorno a questo tavolo si riuniranno attori diversi: agricoltori, braccianti, rappresentanti dell’industria, insieme ad ambientalisti e scienziati. Ognuno con la propria prospettiva, tracceranno la via futura, tutti di fronte alle stesse sfide: garantire un reddito dignitoso agli agricoltori, proteggere la sicurezza alimentare e realizzare la transizione ecologica» espone Ursula von der Leyen al lancio della prima seduta.

Se l’esecutivo europeo coordina gli sforzi per il lungo periodo, sulla protesta agricoltori il governo italiano adotta un approccio che sa più di “un colpo al cerchio e uno al barile”. La Presidente del consiglio si affretta a esentare dall’Irpef per due anni le aziende agricole con redditi sotto i 10.000 euro e a dimezzarla per quelle fino a 15.000. Un dietrofront repentino, se si pensa che l’imposta era stata reintrodotta dalla stessa nella recente legge di bilancio. Retromarcia anche sull’obbligo di assicurare i mezzi agricoli, posticipato di sei mesi. Dei contentini appositamente elargiti per schivare lo smantellamento delle solite lobby. Perché i fondi europei giunti negli anni alle piccole realtà agricole sono briciole confronto alle cifre da capogiro finite nelle tasche delle grandi confederazioni? Perché non si agisce con lo scopo di regolare il mercato, vietare le vendite sottocosto e contrastare le pratiche sleali? Perché il Ministro dell’agricoltura Lollobrigida incontra sigle sindacali pubblicamente diffidate dagli agricoltori ancora in protesta? Forse perché, come svela Dario Dongo nell’inchiesta Vanghe Pulite, a fare da intermediario nell’erogazione dei fondi europei c’è di mezzo Coldiretti, in favore della quale Lollobrigida ha in serbo un decreto ad hoc che ne predispone l’assoluto monopolio del servizio. Strano, non erano loro i liberisti tutti patria e concorrenza? Come sempre, è il tragitto che li frega… Ecco che tutto torna, la lettera di Coldiretti in cui la protesta viene tacciata di “teppismo”, la preclusione dei tavoli ministeriali alle sigle minori, la lettura a San Remo di un trafiletto scritto da Coordinamento Riscatto Agricolo, movimento vicino a Coldiretti e alla destra, e, guarda caso, dallo stesso acronimo dei Comitati Riuntiti Agricoli (C.R.A), veri promotori delle proteste in Italia. Giusto per infinocchiare meglio i telespettatori e spodestare le vere vittime. Meglio pilotare l’opinione pubblica verso la battaglia contro il Nutriscore, la farina di grillo e la pericolosa carne coltivata (per chi? Per il business degli allevamenti intensivi?).

Di questo passo, campa cavallo che l’erba cresce!