Giovanni Toti ha deciso di voltare pagina. Dopo un anno di silenzio seguito all’inchiesta che lo ha costretto a lasciare la presidenza della Regione Liguria, l’ex governatore sceglie di tagliare anche l’ultimo filo che lo teneva legato alla politica attiva. Lo annuncerà oggi, durante il Consiglio nazionale di Noi Moderati, rassegnando le dimissioni da presidente del partito. Un passo che definisce naturale, quasi inevitabile: quel ruolo, dice, non lo ha mai realmente esercitato. E ora preferisce affidarlo a chi ha, parole sue, “voglia, tempo e passione”. Il nome lo fa subito: Ilaria Cavo, considerata una figura capace, esperta, e politicamente affine.
Dalla cabina di regia alla cabina di commento
Non è un addio alla politica in senso assoluto, ma a quella vissuta in prima persona. Toti ha deciso di cambiare prospettiva, di mettersi dalla parte dell’osservatore. Dice di voler fare “il telecronista”, di essere tornato a scrivere, di aver avviato un’agenzia di comunicazione. Una virata netta, che lui stesso collega al naufragio del terzo mandato, che avrebbe comunque segnato la fine del suo ciclo da presidente. Nessuna offerta, assicura, avrebbe potuto eguagliare l’esperienza da governatore.
“Ho provato a rafforzare l’area moderata, ma è rimasta marginale”
Il tentativo di fondare un nuovo soggetto politico nazionale con Cambiamo non ha avuto l’esito sperato. Toti non se ne nasconde: l’obiettivo era dare forza all’area moderata del centrodestra, che definisce “gracile” rispetto al peso che aveva ai tempi dell’epopea berlusconiana. Un’area, dice, che oggi appare residuale, se non marginale. E proprio in riferimento a Berlusconi, ammette che l’unico scenario in cui potrebbe ipotizzare un ritorno sulla scena sarebbe l’impegno di un membro della famiglia del Cavaliere: “Per uno di casa Berlusconi sarei disposto a tornare indietro”.
Dal Psi al Tg4, le origini di un percorso
Toti ripercorre anche l’inizio della sua storia politica, quando a soli 17 anni suonò il campanello di una sede del Partito Socialista Italiano, dove militò per qualche tempo tra i giovani socialisti. Poi arrivò Mani Pulite, e quella stagione si chiuse bruscamente. Ma fu Silvio Berlusconi a riportarlo sulla scena, scegliendolo nel 2013-2014 come suo consigliere, mentre Toti dirigeva il Tg4. C’era già un’affinità politica, ricorda, e il Cavaliere lo coinvolse in uno dei suoi numerosi tentativi di rinnovamento. Di quella stagione conserva anche un aneddoto autoironico: il consiglio di Berlusconi a dimagrire, seguito con “tenacia ma risultati scadenti”.
“Forza Italia senza Berlusconi? Tajani ha stupito, ma non basta”
Sul futuro di Forza Italia Toti riconosce il lavoro fatto da Antonio Tajani, che definisce “enorme”, soprattutto perché nessuno ci avrebbe scommesso. Ma aggiunge che la sopravvivenza di un partito non basta: serve una rivoluzione simile a quella del 1994. Non basterà limare lo 0,1% delle tasse, dice, per risvegliare una proposta politica capace di entusiasmare.
Parlando dell’inchiesta che lo ha travolto, Toti riconosce di aver commesso errori, anche tanti, ma ribadisce con forza di non sentirsi colpevole, né moralmente né legalmente. Il patteggiamento, afferma, non è un’ammissione di colpa, e attribuisce parte delle difficoltà al suo carattere: “Essere ingombrante o caustico non mi ha regalato simpatie”. Rimane convinto che la magistratura abbia frainteso il modo di fare politica della sua giunta. E sottolinea che la cosiddetta “zona grigia” di cui si parla oggi in riferimento al sindaco di Milano, Beppe Sala, è la stessa che ha travolto anche lui.
“Milano modello da difendere o da rinnegare? Lo decida la maggioranza”
Non a caso, Toti ha difeso pubblicamente Sala e la sua giunta. Dice di non capire se la maggioranza che lo sostiene sia davvero orgogliosa del modello Milano o se voglia prenderne le distanze. Se sì, lo difendano. Se no, vadano tutti a casa. Ma il punto, insiste, è che non si può distribuire ricchezza senza prima crearla. E accusa la sinistra di avere una visione manichea, dove l’avidità è demonizzata. “In realtà è proprio quella spinta che crea opportunità anche per chi è rimasto indietro”. Il giudizio sulle scelte politiche, conclude, spetta agli elettori, non ai magistrati.





