Che Donald Trump abbia trionfato alle recenti elezioni americane non deve stupire. Certamente si può far fatica a capirlo, visto il suo passato discutibile: dalle vicende di bancarotta che lo hanno visto coinvolto negli anni Novanta al procedimento di impeachment nel dicembre del 2019. Senza contare i record negativi: Trump è stato il primo presidente ad essere incriminato per reati federali, con l’accusa di aver custodito alcuni documenti riservati nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida, nel 2023. E sempre lui è stato il primo ex presidente ad essere condannato in un processo penale (in quel caso per aver falsificato delle carte con lo scopo di coprire il pagamento a favore della pornodiva Stormy Daniels). C’è da ammetterlo, senza girarci troppo attorno: il merito del miliardario, che secondo le stime di «Forbes» vanta un patrimonio di 5,6 miliardi di dollari, è di aver saputo parlare alla pancia del Paese. Ancora una volta la sinistra (ed è una severa lezione anche per l’Italia) si è mostrata, infatti, miope, incapace di cogliere i problemi con cui fanno i conti le persone ogni giorno. E la destra continua ad approfittare della sicumera dei dem.
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Trump vince e torna alla Casa Bianca (grazie anche alla miopia della sinistra)
Per comprendere appieno da dove arrivi il vento popolare che ha rispedito Trump alla Casa Bianca bisogna guardare alle fragilità degli Stati Uniti. Che poi non sono così diverse dalle nostre. Sotto il motto «Make America Great Again» ci sono l’aumento dei prezzi che ha colpito indistintamente, le guerre che infuriano nel mondo (che il tycoon ha promesso di far cessare senza aver premura che si arrivi ad una pace giusta), ma anche l’immigrazione illegale che ha avuto un impatto sulla criminalità, percepita soprattutto nelle realtà suburbane. Trump ha convinto tutti, dai senzatetto ai super ricchi, dalle giovani generazioni ai più maturi, rispolverando l’efficace domanda che Ronald Regan sfoderò nelle battute finali del dibattito con l’allora presidente in carica Jimmy Carter, a pochi giorni dalle elezioni che l’avrebbero portato a vincere: «Cari americani, state meglio ora rispetto a quattro anni fa?».

Trump vince: i meriti suoi e gli errori di Kamala Harris
Beh, milioni di elettori si sono detti convinti di stare peggio e ritengono di essere stati danneggiati dalle politiche di Joe Biden. E tra le tante cose, la democratica Kamala Harris paga il prezzo di essere stata identificata con quell’amministrazione, di essere arrivata a campagna elettorale inoltrata. Anziché concentrarsi su temi come economia e inflazione, la Harris ha tentato più volte di spostare il dibattito su questioni come l’assalto del 6 gennaio a Capitol Hill, il clima o l’ideologia woke, che, intendiamoci, sono importanti, ma non interessano un numero consistente di elettori. Lei, donna dei record (è stata la seconda donna nera dopo Carol Moseley Braun ad essere eletta nel 2016 in Senato e la prima donna a ricoprire il ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti nel 2021), non è riuscita ad entrare in sintonia con le persone, capendone i bisogni.

Harris vista come espressione dei radical chic della Silicon Valley
La cosa più intelligente, ieri, l’ho sentita dal professor Vittorio Emanuele Parsi, quando parlando delle storpiature della democrazia, ha detto che «non si vota il candidato migliore di sé, ma quello in cui ci si riconosce». Lo possiamo scrivere: tra i motivi per cui Kamala Harris non ce l’ha fatta vi è che per molti lei è emblema dei radical chic della Silicon Valley. La considerano una privilegiata, una che non fa fatica ad arrivare a fine mese. Tanti non le perdonano il suo background, il successo, rinfacciandole la relazione del 1994 con Willie Brown, potente presidente del parlamento della California e poi sindaco di San Francisco, che le ha aperto molte porte.
Una liason chiacchierata, dovuta soprattutto alla differenza d’età (Brown ha circa 30 anni più di lei). Anche se, è doverosa una considerazione: non si capisce perché quando si tratta di donne si fa maggior difficoltà a dimenticare: nessuno, ad esempio, come si legge sul «Corriere della sera», ricorda oggi che Brown ha lanciato altri politici di sesso maschile, come il governatore Gavin Newsom. Eppure sul lavoro, specie da procuratrice, Harris ha dimostrato di avere la stoffa, di essere brillante. Addirittura pignola, esigente. Tanto da appiccicarsi addosso l’immagine di una professionista poco attenta ai suoi collaboratori: «Spesso è tesa perché sente da sempre il peso delle grandi aspettative che ci sono su di lei. Faticoso starle vicino», ha detto Gil Duran, un giornalista che è stato suo direttore della comunicazione, ma che poi si é dimesso per contrasti.


Perché le donne hanno preferito Trump a Kamala Harris
Quella mancanza di empatia che ha fatto la differenza in campagna elettorale. Trump è stato capace, ora friggendo patatine in un fast food, ora rifilando frasi choc come «quando sei famoso puoi fare tutto quello che vuoi alle donne. Prenderle per la f**a, tutto», ad accaparrarsi la fiducia degli elettori, persuasi che nelle mani del tycoon l’America possa tornare grande. Che poi non importa che ciò sia vero, ma che i trumpiani continuino a pensarlo. È la politica populista, quella che crea il vuoto attorno a sé e lo riempie di tutte quelle parole che l’elettore vuole sentirsi dire. L’imprenditore ha portato dalla sua non solo gli uomini, ma anche le donne, che evidentemente non erano pronte a votare una donna di colore. E dispiace che i tempi non siano ancora maturi. L’uggia è che le donne non siano capaci di fare quadrato, che abbiano preferito votare un uomo accusato più volte di molestie. Ed è serio il pericolo all’orizzonte: la sconfitta di Harris potrebbe far arretrare i diritti delle donne. L’allusione, ovviamente, è alla legge che garantisce il diritto all’aborto. Evidentemente, come ha scritto Giulia Mattioli su «Repubblica» anche le donne «possono essere portatrici sane di valori patriarcali». Ed è un’eventualità che fa arrabbiare, che lascia tanta amarezza. Ora il vero augurio è che Trump non mantenga tutte le sue promesse.
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