Un casco bianco, il numero 58 e un sorriso che il tempo non ha cancellato. È impossibile dimenticare Marco Simoncelli, il pilota romagnolo che amava la velocità e la vita con la stessa passione. Il 23 ottobre 2011, sul circuito di Sepang, in Malesia, il destino lo ha strappato via a ventiquattro anni, lasciando un silenzio che ancora oggi pesa come un motore spento. A ricordarlo, con voce commossa, è Claudio Costa, il medico che per decenni è stato l’angelo dei piloti, fondatore della Clinica Mobile e custode di un mondo fatto di coraggio, rischio e dolore. Ospite del podcast The BSMT, Costa ha ripercorso quel giorno e il rimpianto che non l’ha mai abbandonato: “Sulla griglia di partenza Marco aveva in testa un asciugamano al contrario. Il padre lo bruciò, considerandolo un segnale sfavorevole. Se fossi stato lì gli avrei parlato. Gli avrei detto che gli dei, quel giorno, non lo avrebbero aiutato a vincere, ma che avrebbe trionfato la settimana dopo, a Valencia”, ha detto.
“La superstizione non è una debolezza”
Nelle parole del medico non c’è fatalismo, ma rispetto. «La superstizione non è una debolezza», spiega. «È un modo per illudersi di poter controllare una realtà che non sempre è favorevole all’uomo». Chi conosce Costa sa che non parla da scienziato distaccato, ma da uomo che ha passato la vita a raccogliere corpi feriti e a rimetterli in sella. «Marco era puro, vero, senza filtri. Aveva dentro di sé la follia dei grandi e la tenerezza dei ragazzi che credono ancora nei sogni», ha detto. Negli anni, Costa è stato testimone di decine di incidenti e resurrezioni sportive. Ma quella volta, racconta, il suo ruolo di medico non bastò a proteggerlo dal dolore. «Quando Marco cadde, il mondo si fermò per un istante. Capimmo subito che non era una caduta come le altre», ha confessato.
“Aprii la bara per farlo vedere a sua sorella”
Poi, un ricordo che rompe ogni distanza professionale. Quando la salma di Simoncelli tornò a Coriano, Costa decise di fare qualcosa che non dimenticherà mai: «Aprii la bara per permettere alla sorella di poterlo vedere». Un gesto istintivo, quasi paterno. «In quel momento vidi anche un documento: era la relazione dell’autopsia. C’era scritto No alcohol, no drugs. Mi riempì di gioia, perché significava che Marco era rimasto un ragazzo pulito fino alla fine», ha detto Costa. Per un uomo che ha sempre creduto nel valore etico dello sport, quella frase fu una consolazione. «Mi fece capire che, nonostante tutto, avevamo cresciuto un campione che sapeva restare se stesso, lontano dagli eccessi, vicino alla gente. Era il suo modo di essere libero».
“Marco è più di un pilota: è un simbolo di coraggio”
A ottantaquattro anni, con la voce segnata dal tempo, Costa parla di Simoncelli come di un figlio mai dimenticato. «Marco è diventato uno di noi. È qualcosa di più grande di un pilota. È un simbolo di coraggio e di purezza. È parte di tutti noi che viviamo di moto e di passione», ha detto. Parole che restituiscono la misura di un affetto profondo, fatto di ammirazione e riconoscenza. Perché chi frequenta il paddock lo sa: Simoncelli era amato da tutti, per il suo carattere schietto, per quella fame di vita che non conosceva paura. «Con lui è morta una parte della nostra giovinezza, ma il suo spirito corre ancora, più veloce di tutti», ha dichiarato.
Il sorriso che continua a correre
Oggi, a più di dieci anni da quel maledetto giorno, il nome di Marco Simoncelli è ovunque. Nel Centro sportivo di Coriano che porta il suo numero 58, nelle curve intitolate a lui, nei cuori dei tifosi che non smettono di ricordarlo. Per Costa, ogni ricordo è una promessa di continuità: «Marco non è solo un ricordo, è una forza. È la prova che il coraggio, quando nasce dal cuore, non muore mai». E mentre chiude gli occhi, il dottore sembra rivederlo ancora: casco in testa, sguardo allegro, pronto a sfidare il mondo. Forse è vero, come dice lui: Simoncelli non se n’è mai andato.





