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Israele, liberati tutti gli ostaggi: i racconti drammatici della prigionia

Dopo oltre due anni di attesa, non c’è più alcun ostaggio israeliano vivo nelle mani di Hamas. La liberazione, arrivata al termine di giorni concitati, sta ora lasciando spazio ai racconti dei sopravvissuti: testimonianze durissime, che restituiscono il prezzo umano di una detenzione lunga e disumana. Alcuni prigionieri, come Ariel Cunio e Avinatan Or, sono rimasti in isolamento totale per quasi due anni, senza alcuna notizia del mondo esterno. Ignoravano perfino cosa fosse accaduto il 7 ottobre 2023, né sapevano se le loro compagne, Arbel Yehud e Noa Argamani, rapite sotto i loro occhi, fossero ancora vive.

“Ho perso la cognizione del tempo e dello spazio”

Le condizioni di salute dei liberati sono preoccupanti. Secondo Haaretz, Avinatan Or ha perso fino al 40% del peso corporeo, mentre i medici parlano di gravi segni di malnutrizione anche per Cunio.
Elkana Bohbot, tenuto per mesi incatenato nei tunnel sotterranei di Gaza, ha raccontato di aver vissuto “nell’oscurità, senza aria né tempo”, nutrendosi solo di scarti. Negli ultimi giorni prima del rilascio, i carcerieri lo avevano costretto a mangiare in eccesso per sembrare in condizioni accettabili: ora soffre di seri problemi allo stomaco.

Il suo racconto è struggente: «Lì sotto ho perso la cognizione del tempo e dello spazio», ha detto. A casa lo attendeva il figlioletto Reem, che nei mesi di assenza aveva costruito un binocolo per “cercare il papà nel cielo”. L’ultimo segnale di vita di Bohbot era arrivato da un video di Hamas in cui, in lacrime, implorava: «Sto soffocando. Voglio uscire. Mi manca la mia famiglia».

Violenza, isolamento e terrore

Non tutti i prigionieri sono stati trattati allo stesso modo, ma la brutalità è stata la regola. Il soldato Matan Angrest è stato picchiato ripetutamente fino a perdere conoscenza; i gemelli Gali e Ziv Berman sono stati separati per l’intera durata della prigionia, senza potersi mai parlare. David Cunio, fratello di Ariel, è stato invece tenuto a lungo in una gabbia. Angrest ha raccontato «i bombardamenti sopra le nostre teste, i muri che crollavano, la polvere delle macerie». Secondo la madre, non ricorda quasi nulla del rapimento, “solo qualche flashback di un incendio”, e porta ancora ustioni alle mani.

“È lo stesso ragazzo di prima”

Nonostante tutto, alcuni ex ostaggi mostrano una forza straordinaria. «Nimrod è rimasto Nimrod», ha detto il padre di Nimrod Cohen, commosso nel rivedere il figlio con lo stesso sorriso e la stessa voce di un tempo. Più drammatica la vicenda di Evyatar David, diventato simbolo internazionale dopo essere stato filmato mentre scavava la propria fossa. Il padre ha raccontato che «è ancora molto debole e scheletrico, ma è vivo. Dopo due anni di inferno, ora può ricominciare».

Un Paese ferito

Molti ex prigionieri resteranno ricoverati per settimane, seguiti da psicologi e medici. Ma le ferite più profonde, quelle emotive, richiederanno anni per rimarginarsi. Nel frattempo Israele piange altre vittime del trauma: Roei Shalev, sopravvissuto al massacro del 7 ottobre, si è tolto la vita nel secondo anniversario dell’attacco, sopraffatto dal senso di colpa. Il giorno dopo, la madre di una delle giovani uccise ha fatto lo stesso gesto. E mentre Rafah resta chiuso e Netanyahu ribadisce che “Hamas dovrà disarmarsi o sarà l’inferno”, il Paese si ritrova a fare i conti non solo con la guerra, ma con la lunga, dolorosa ricostruzione dell’anima.