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Così la ‘ndrangheta lombarda decise di eliminare “l’infame”: risolto 25 anni dopo il cold case di Nicola Vivaldo

Venticinque anni dopo, la giustizia torna sul luogo di un’esecuzione mafiosa che segnò la storia criminale lombarda. L’omicidio di Nicola Vivaldo, ucciso con cinque colpi al volto il 23 febbraio 2000 a Mazzo di Rho, è stato ufficialmente ricostruito dalla Dda di Milano grazie alle indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri guidato dal colonnello Antonio Coppola.
Un delitto deciso dai vertici della cosca Gallace di Guardavalle e dalla locale di ’ndrangheta di Lonate Pozzolo, egemone anche sulla zona di Rho e Legnano, convinti che Vivaldo, pur contiguo alla cosca e compartecipe di traffici di droga, fosse un confidente dei carabinieri. L’indagine, condotta dalla pm Alessandra Cerreti, sfocia ora in sei arresti, tra cui nomi pesantissimi della criminalità organizzata calabrese al Nord, già in carcere da anni al 41 bis.

Il movente: “Era un confidente, ha fatto arrestare troppe persone”

Vivaldo, secondo i magistrati, era sospettato dai boss di aver fornito informazioni alle forze dell’ordine fino a contribuire alla cattura del latitante Francesco Aloi, narcotrafficante di spicco e genero di Vincenzo Gallace, considerato il capo della cosca di Guardavalle. Un appunto investigativo dell’epoca riportava la frase: “È successo tutto questo perché Nicola si stava comportando male… ha fatto arrestare troppe persone.” Per i capi della ’ndrangheta, quella condotta equivaleva (ed equivale tuttora per tutti gli affiliati o contigui alle cosche), a una condanna a morte.

I mandanti: la cupola dei Gallace e la locale lombarda

La misura cautelare firmata dal gip Tommaso Perna ha raggiunto Vincenzo Gallace, oggi 78enne, storico capo della cosca di Guardavalle, già al 41-bis e Vincenzo Rispoli, 62 anni, figura apicale della locale di Lonate Pozzolo e della cosca Farao-Marincola di Cirò Marina e nome già noto nell’inchiesta “Infinito”, anch’egli in carcere al 41 bis. Secondo la Procura, furono loro a deliberare la condanna di Vivaldo, con l’avallo del mandamento lombardo della ‘ndrangheta, guidato all’epoca da Carmelo Novella, anche lui di Guardavalle, poi ucciso nel 2008 per la sua linea scissionista.
Decisive le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Emanuele De Castro, già braccio destro di Rispoli:
“Mi fu detto che Vivaldo era un confidente e che doveva essere ucciso. L’ordine partiva da Guardavalle.” E Guardavalle all’epoca comandava in Lombardia.

Il commando: l’esecutore materiale e l’informatore

Gli arresti colpiscono anche Massimo Rosi, all’epoca “delfino” di Rispoli di cui diventerà poi il successore, indicato come esecutore materiale e Stefano Sanfilippo, capo della locale di Rho e grande amico della vittima, accusato di aver fornito al gruppo i movimenti di Vivaldo.
De Castro racconta che Sanfilippo, padrino di battesimo del figlio di Vivaldo, fu proprio colui che informò il commando sul momento giusto per colpire. Nel 2019, intercettato in carcere, Rosi temeva il pentimento di De Castro: “Se questo parla, mi fa fare il segno della croce… adesso li portano via tutti quanti.”

L’esecuzione: cinque colpi da mezzo metro di distanza

La sera del 23 febbraio 2000, una Volkswagen Golf si apposta vicino all’abitazione di Vivaldo in via Balzarotti a Mazzo di Rho. Quando l’uomo raggiunge la sua auto, il gruppo entra in azione.
De Castro ricostruisce l’omicidio con precisione: Rosi si avvicina e spara da 30-50 centimetri di distanza cinque colpi complessivi, quattro alla testa; il collaboratore apre la portiera e verifica la morte dell’uomo. Un’esecuzione di stampo mafioso, silenziosa, rapida, pianificata.

Dopo il delitto, l’isolamento: “Nessuno venne al funerale”

Per la Procura, il cerchio è ora chiuso. Resta il dolore della famiglia, che negli anni ha denunciato l’isolamento imposto dalla comunità criminale ai loro danni. Le parole della moglie di Vivaldo sono il sigillo amaro di una storia rimasta sospesa troppo a lungo: “Dopo la morte di mio marito, nessuno degli amici di Guardavalle si è fatto vivo. Nessuno è venuto al funerale.” Una sentenza di condanna in pieno stile ‘ndranghetista, che sarebbe poi stata confermata dall’inchiesta odierna.
La chiusura dell’indagine, a distanza di un quarto di secolo, restituisce finalmente un nome, un movente e dei responsabili a un omicidio che rappresenta uno dei passaggi più oscuri della presenza ’ndranghetista in Lombardia.