Tanti sono gli appellativi collezionati da Giorgio Napolitano nel corso della lunga carriera politico-istituzionale, dagli anni giovanili nelle file del Partito comunista italiano (PCI) alla doppia elezione a Presidente della Repubblica. L’epiteto “Re Giorgio”, pronunciato al di là e al di qua dell’Atlantico in circostanze antitetiche, dal New York Times con accezione glorificante e dal giurista Franco Cordero con riferimento alle ingerenze quasi “monarchiche”, racchiude l’essenza di un leader a tratti controverso.
Napolitano: le mille vite del Presidente dei record
Gli aneddoti validi ad incoronare Giorgio Napolitano “Presidente dei record” si susseguono uno dopo l’altro. Prima figura di spicco del PCI ad affascinare gli Stati Uniti, patria del liberismo imperante, tanto da fargli ottenere un visto su invito delle prestigiose Harvard, Princeton e Yale. Solo a seguito del sonoro rifiuto ricevuto dall’allora segretario di stato Henry Kissinger, si intende. Divenuto poi stretto interlocutore, lo battezza «my favourite communist», il mio comunista preferito, nonché, fungerà da figura apripista ai futuri incontri con Barack Obama. Amicizia che culminerà nel 2015 con l’attribuzione del premio omonimo, in riconoscimento dell’impegno profuso nel saldare le relazioni diplomatiche fra Europa e Stati Uniti.
Viene da pensare che i buon umori riscossi sulla scena internazionale da Giorgio Napolitano siano il frutto di quell’abilità, assai rara in chi fa politica con il petto in fuori e il cammino sempre sterrato, di revisionare le appartenenze ideologiche tenute agli albori senza risparmiare feroci autocritiche. Come quelle rinvenibili nell’autobiografia “Dal PCI al socialismo europeo”, edito da Laterza. Giunto agli anni della riflessione, il presidente emerito esprime parole dure verso le scelte del passato: «la mia storia non è mai rimasta al punto di partenza» scrive a mezzo di professione di fede verso la socialdemocrazia europea. Matrimonio politico giunto solo dopo un lungo e travagliato cammino all’interno della corrente più moderata del PCI, il migliorismo. Non a caso, l’adesione giovanile al partito comunista non è sinonimo di connivenza al Leninismo, quanto più segna la scelta di opporsi al fascismo attraverso l’unica alternativa possibile.

Il mea culpa più doloroso è quello pronunciato trent’anni dopo i tragici eventi del 1956, sotto i riflettori del Tg1. Mentre l’Ungheria avvampava sotto il fervore delle rivolte anticomuniste e l’Unione Sovietica reprimeva nel sangue i neonati sentimenti democratici di un popolo intero, l’Unità, storica testata affiliata al PCI, etichettava senza scrupoli i patrioti Ungheresi come “teppisti” e “spregevoli provocatori”. Il Napolitano trentunenne di allora si accoda alla linea di partito, giustifica l’invasione sovietica come “dolorosa necessità”, accecato da una scelta di campo che dichiarerà essere stata “colpevolmente ideologica”. Il travaglio dei rimorsi opera, negli anni della maturità, un capovolgimento radicale dei giudizi. La repressione sovietica è condannata senza mezzi termini a conseguenza brutale della suddivisione europea in blocchi d’influenza. «Aberrante», è l’attributo ripetuto più di frequente. Espressione di dissenso che troverà conferma anche nel ‘68, anno in cui Napolitano, vicesegretario del PCI, redige personalmente una lettera di fermo contrasto all’invasione Sovietica della Ceco-Slovacchia.
Il socialismo e l’impegno per una sinistra democratica
Le vicende internazionali che si sono susseguite sino alla caduta del muro di Berlino e dei regimi comunisti gravitanti nell’orbita sovietica fungono da acceleratore alla “via italiana al socialismo”, prospettiva incarnata dal Presidente Napolitano sin dagli scontri con le figure più radicali interne al PCI, Longo e Berlinguer. Messo all’angolo dal suo stesso partito, diviene figura cardine della corrente migliorista, termine coniato con accezione dispregiativa da detrattori arroccati ostinatamente su posizioni arcaiche, improntate alla lotta di classe e alla rivoluzione dura e cruda. Napolitano è già oltre. Visionario e anticipatore di tempi, persegue ideali di giustizia sociale ed equità collettiva all’interno dei confini democratici. Allievo di Giorgio Amendola, rifiuta schieramenti di contrapposizione violenta al capitalismo, confluendo lo sforzo politico nel teorizzare riforme in grado di “umanizzarlo” secondo principi socialdemocratici. La distanza dai comunisti è ormai siderale. Gli incarichi istituzionali si moltiplicano, il futuro presidente rivestirà ruoli di elevato prestigio: presidente della Camera dei Deputati nel 1992, mandato durante il quale, per far fronte al caso Craxi, rivoluzionerà le procedure parlamentari rendendo palese il voto per le autorizzazioni a procedere; Ministro dell’Interno per il governo Prodi I ed europarlamentare dal 1999 al 2004. Carlo Azelio Ciampi lo nomina Senatore a vita nel 2005.

La nomina a Capo dello Stato: da uomo di parte a uomo di Stato
Di Giorgio Napolitano ne avremmo ancora così tanto bisogno che lo abbiamo voluto Presidente due volte. La prima nomina a Capo dello Stato giunge nel 2006, sostenuto da 543 voti favorevoli è eletto undicesimo Presidente della Repubblica Italiana. Salito al Colle, affronterà nel corso del primo mandato numerose crisi. Sul piano nazionale, la caduta del Governo Prodi e quella del Governo Berlusconi, simultanea alla crisi internazionale dei debiti sovrani. La parola spread-il differenziale di rendimento dei titoli di stato italiani in relazione a quelli tedeschi- indice di salute economica complessiva, entra a far parte dell’uso comune. L’affidabilità italiana sui mercati internazionali crolla a picco, la quota di investitori reticenti ad acquistare titoli di stato si eleva ai massimi storici e, ad aggravare il penoso quadro, la credibilità del premier Silvio Berlusconi è irrimediabilmente deteriorata dai continui scandali. I richiami della Commissione Europea a urgenti riforme strutturali non si fanno attendere. L’Italia è in stallo, sull’orlo del baratro, sotto lo scacco di un Parlamento immobile. Il Presidente Napolitano, in mezzo a quella che possiamo definire la “tempesta perfetta”, dà prova di grande caratura politica. Ricevute le dimissioni di Silvio Berlusconi, incarica Mario Monti alla formazione di un esecutivo tecnico, consapevole ma incurante delle polemiche che sarebbero scaturite. Il salvataggio dei conti pubblici avvenne al prezzo di riforme “lacrime e sangue”.
Allo scadere del primo mandato, Giorgio Napolitano, non si aspettava certo di essere rieletto. L’intenzione a ritirarsi dai doveri istituzionali, per chiare ragioni legate all’età, era stata espressa con fermezza nel consueto discorso di fine anno. Uomo delle istituzioni, sente forte l’imperativo a retrocedere, in virtù della tanto cara “democrazia dell’alternanza“. È a quello stesso senso delle istituzioni che dovrà rispondere, in un appuntamento con la storia a cui nessuno aveva mai presenziato. Le congiunture di ingovernabilità e un parlamento divenuto ormai babele di <<nefandezze, guasti e omissioni>> lo spingono ad accettare l’appello avanzato da destra e sinistra riunite. Il 20 Aprile del 2013 Giorgio Napolitano è il primo Presidente della Repubblica rieletto per un secondo mandato consecutivo. Il giuramento alle Camere è durissimo, inflessibile nel denunciare le «pesanti ombre di corruzione e lassismo» e rammaricato nell’ammonire «i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme». L’immagine che ci perviene è quella di un maestro rimproverare con mesta determinazione una scolaresca incurante. Ai populismi di piazza e di rete, fomentati da taluni comportamenti colpevoli di aver screditato le istituzioni della Repubblica con campagne denigratorie e rappresentazioni fraudolente, risponde con il rigore della dialettica democratica. Rifiuta l’ipocrisia di applausi e ovazioni: «Il vostro applauso, quest’ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere, non induca ad alcuna autoindulgenza» chiosa con irritazione. Due anni dopo, il 24 Gennaio 2015, rassegna le proprie dimissioni. Per ragioni legate all’età, è la causa formale, anche se ad un occhio più attento non sfuggono i tanti appelli caduti nel vuoto e le riforme mai portate a compimento.

La battaglia per il federalismo europeo: unità, solidarietà, sovranità
L’Europa è stata per Napolitano «una scelta di campo, di vita e di libertà», così lo ricordano Paolo Gentiloni , commissario europeo per gli affari economici, e i tanti compagni di gesta sovranazionali. Sostenitore instancabile del progetto europeo, tra i banchi Bruxelles guadagna stima e riconoscimento. Erede politico di Altiero Spinelli porterà nell’animo e nell’agire la scintilla del federalismo, il sogno di un’Europa finalmente unita, nei suoi risvolti politici, culturali, economici e fiscali. Un sogno a metà quello del Presidente, destinato ad avverarsi solo in parte, rallentato da sconfitte consistenti, come la mancata composizione di un organo di difesa comune, la Comunità Europea di difesa (CED) ma rinvigorito dalla costanza negli intenti. Il contributo alla formazione di istituzioni comunitarie ancora amorfe si esplicita a Strasburgo nelle vesti di presidente della Commissione Affari Costituzionali. Nel corso del lungo dialogo costituente, affermerà con sguardo lungimirante il necessario superamento della mera conciliazione degli interessi nazionali, in favore di una reale fusione fra gli stessi. Traguardo ambizioso, tacciabile di utopia, a causa del quale Napolitano è stato bersaglio di aspre critiche, cui risponde con piglio deciso:
“Se davvero la prova suprema di vocazione e visione politica la si dà, la si dà ritentando ogni volta l’impossibile. Ebbene, quello di un’Europa sempre più unita è precisamente l’impossibile che dobbiamo ritentare con tutte le nostre forze. E se si pensa al mondo che cambia e ribolle attorno a noi, viene spontaneo chiedersi: Europa, se non ora, quando?” [Europa, politica e passione. Giorgio Napolitano, 2016]
È all’antagonismo di nazionalismi e populismi che si riferisce, forze retrograde, rigurgiti del passato contrari al pieno sviluppo dell’integrazione, senza la quale, come mai si stancherà di ripetere <<l’Italia è destinata all’irrilevanza internazionale>>. Mentre ai giovani e ai leader che vorranno raccogliere il suo pesante testimone rivolge un accorato incoraggiamento:
“Oggi per l’Europa occorre che quanti credono nei suoi valori e sentono l’imperativo della sua unità sappiano osare e rischiare. Non dimenticando che, specie per superare incomprensioni, condizionamenti storici, contagiose paure e resistenze al nuovo, la politica deve farsi passione” [Europa, politica e passione. Giorgio Napolitano, 2016]
Quella passione che Giorgio Napolitano non ha mai spento





