Sono passati ventiquattro anni dalla morte di Indro Montanelli, ma il suo nome continua a dividere, interrogare, provocare. Per alcuni, padre nobile del giornalismo italiano. Per altri, figura controversa, da leggere con il distacco critico che si deve agli uomini del Novecento.
Ma una cosa è certa: Montanelli è stato uno dei testimoni più lucidi della storia d’Italia, capace di attraversare i grandi eventi del secolo (guerre, dittature, ricostruzioni, rivoluzioni politiche) con lo sguardo del cronista e la voce dello storico. Nato a Fucecchio, in provincia di Firenze, nel 1909, e morto a Milano il 22 luglio 2001, Montanelli ha incarnato un modo di fare giornalismo che univa indipendenza feroce e scrittura limpida, lontana dai vezzi letterari e vicina al cuore dei lettori.
Corriere, il Giornale e il prezzo dell’indipendenza
Fu per trentacinque anni una delle firme più autorevoli del “Corriere della Sera”, giornale dal quale si allontanò, e poi tornò, più volte, spesso per divergenze con la linea editoriale o con il potere politico di turno. Inizialmente filo-fascista, ne denunciò poi le derive autoritarie, pagando il prezzo del dissenso. Il rapporto con l’autorità, in tutte le sue forme, fu sempre segnato da una tensione costante: Montanelli scriveva per raccontare, non per compiacere.
Nel 1974 fondò “il Giornale”, testata che avrebbe diretto per quasi vent’anni, fino a quando Silvio Berlusconi, all’epoca azionista di maggioranza, annunciò la propria discesa in politica. Montanelli, liberal-conservatore ma fermamente indipendente, si oppose con decisione, rifiutandosi di trasformare il giornale in una cassa di risonanza personale del suo editore. Quel gesto gli costò la direzione, ma lo consacrò come una voce libera. Non smise di scrivere, ma lo fece altrove. Più solo, più combattivo.
L’attentato e il coraggio delle idee
Nel 1977, mentre l’Italia attraversava uno dei suoi periodi più bui, Montanelli venne gambizzato dalle Brigate Rosse. Lo colpirono perché, a loro dire, era un simbolo del potere borghese, della stampa “di regime”, dell’anticomunismo. Ma il gesto ebbe l’effetto opposto: rafforzò l’immagine di un uomo che non aveva mai avuto paura di dire ciò che pensava, anche a costo della vita. Non si piegò né alla violenza né alla retorica. Continuò a scrivere, spesso in dissenso con l’opinione dominante. Contestò duramente il Sessantotto, che riteneva un movimento “infantilista”, e non nascose mai la sua avversione al comunismo, anche quando essere anticomunisti non era di moda.

Storia d’Italia e Lettera 22: il Montanelli scrittore
Accanto al giornalismo quotidiano, Montanelli coltivò un ambizioso progetto divulgativo: la sua “Storia d’Italia”, un’opera monumentale in cui ripercorreva, con taglio narrativo e piglio personale, la storia della penisola dalla tarda età romana fino al secondo dopoguerra. La sua prosa, asciutta ma mai banale, portò la storia nelle case degli italiani, anche grazie a un uso brillante del paradosso e della semplificazione. Scrisse anche per il teatro (una decina di commedie) e coltivò fino alla fine l’amore per la macchina da scrivere Lettera 22, che è oggi scolpita nella statua commemorativa a lui dedicata nei giardini di via Palestro a Milano, città che fu il suo rifugio, la sua arena.
L’eredità e le ombre
Indro Montanelli ha lasciato in eredità migliaia di articoli, editoriali, libri, giudizi affilati e profezie disilluse. Ma ha lasciato anche zone d’ombra, passaggi controversi della sua vita e del suo pensiero che non possono essere ignorati.
Le sue parole sul colonialismo, il matrimonio con una giovane eritrea durante la guerra d’Etiopia, i suoi giudizi netti e talvolta paternalistici, hanno sollevato e continuano a sollevare dibattiti serrati sul rapporto tra memoria, storia e responsabilità. Eppure, anche nella controversia, Montanelli resta una figura cardine della storia culturale italiana. Perché, come pochi, ha saputo raccontare un intero secolo stando nel mezzo, ma senza mai confondersi con esso.





