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“Ammazzare stanca”: la vita del killer Antonio Zagari diventa un film

«Lavorare stanca», scriveva Pavese. Ma anche uccidere può logorare. Antonio Zagari, killer della ‘ndrangheta attivo tra gli anni ’70 e ’80 in Lombardia, fu il primo a infrangere il muro dell’omertà. Dopo oltre vent’anni tra omicidi e rapine, scelse di collaborare con la giustizia. La sua storia, raccontata in un’autobiografia, diventa ora un film diretto da Daniele Vicari, “Ammazzare stanca”, in concorso al prossimo Festival di Venezia.

Dal Sud al Nord, la ‘ndrangheta si radica

Antonio Zagari nasce il 1° gennaio 1954 a San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. È il padre Giacomo, affiliato alla ‘ndrangheta, a segnargli il destino: la famiglia si trasferisce presto a Buguggiate, in provincia di Varese. Dietro il lavoro da muratore, il padre avvia una rete criminale fatta di armi, estorsioni e prostituzione. Fin da piccolo, Antonio viene educato al crimine. «Appena nato, mio padre mi mise davanti un coltello e una chiave. Scelsi il coltello».

L’ascesa criminale in Lombardia

Irrequieto, insofferente alla scuola e ai lavori onesti, Antonio si muove tra panetterie e officine fino all’affiliazione ufficiale in Calabria. Da quel momento, entra stabilmente nell’ambiente malavitoso. Frequenta boss come Savino Pesce e i Bellocco. Rifiuta la “morale del lavoro” lombarda: incendia la vetreria in cui lavorava e abbraccia la via del crimine con entusiasmo. «Sentivo un orgasmo cerebrale mentre le fiamme salivano al cielo».

Rapine, omicidi e il primo pentimento

Il primo arresto arriva nel 1974. Dopo varie rapine, Antonio viene accusato anche del sequestro di Emanuele Riboli, studente diciassettenne mai più ritrovato. È solo l’inizio. Uccide un rivale siciliano, Pippo Furnò, senza provare alcun rimorso: «Mi lasciò indifferente, forse mi piacque». Ma una crepa si apre nel 1983, dopo una rapina finita nel sangue. Arrestato e tradito dai complici, Zagari inizia a collaborare con la giustizia.

Latitanza e resa finale

Fugge dalla caserma dei carabinieri dove era protetto. Trascorre mesi nascosto tra soffitte e buche scavate nell’orto. Braccato dalla giustizia e minacciato dai suoi ex compagni, spara a due emissari della cosca e si rifugia sul lago di Garda. Arrestato a Brescia, affronta un altro processo. Ma la giustizia dimentica un ricorso e viene rilasciato. Isolato, costretto a dimostrare fedeltà al clan, uccide ancora due vecchi complici.

L’incontro con Ganzer e la trappola al clan

La svolta definitiva arriva con l’incontro con il colonnello Giampaolo Ganzer. Zagari rivela un piano per un sequestro imminente a Leggiuno. Il 16 gennaio 1990, i carabinieri bloccano il commando calabrese: quattro morti. Da quel momento, il pentito collabora stabilmente con la giustizia, fornendo dettagli su una lunga scia di crimini rimasti impuniti.

Il processo “Isola felice” e la condanna del padre

Nel 1994, il magistrato Armando Spataro utilizza le sue dichiarazioni per lanciare l’inchiesta “Isola felice”: 115 arresti tra boss e affiliati della ‘ndrangheta lombarda. In aula, Zagari testimonia con freddezza, senza accento, distruggendo ogni stereotipo. Tra gli imputati, suo padre Giacomo, che verrà condannato all’ergastolo.

Una fine nel silenzio e un epitaffio senza pace

Nel 2004, Zagari scompare in circostanze misteriose: si parla di un incidente in moto nei pressi di Spoleto. Di lui non resta nulla, se non le ultime parole del suo libro:
«Avevo nausea di tutto ciò che ruotava attorno all’ambiente malavitoso. Sarei ipocrita se affermassi di avere rimorso. L’ho cercato, e lo sto ancora cercando. Inutilmente».