Gli Humvee della Guardia Nazionale schierati a Los Angeles, contro il parere del sindaco e del governatore, non sono solo un’immagine da copertina: sono il simbolo di una frattura istituzionale che attraversa gli Stati Uniti come una faglia sismica. Come sottolinea La Stampa, questa tensione non è una semplice crisi contingente, ma il segnale che la nuova stagione trumpiana si muove su tre direttrici strategiche: migrazione, nazionalizzazione, costruzione. Una triade che delinea i confini della battaglia in corso tra due Americhe: quella del passato e quella che vorrebbe rifondarsi attorno alla figura di Donald Trump.
Elon Musk, in questo scenario, potrebbe essere la prima vittima eccellente. Ma chi pensa che lo scontro tra il presidente e il miliardario sia un duello tra super-ego si sbaglia di grosso. Qui non c’è solo un braccio di ferro tra l’uomo più potente del mondo e quello più ricco: c’è la ridefinizione dell’equilibrio globale. E l’Europa, volente o nolente, è sullo sfondo. Due di quelle tre parole chiave – “migrazione” e “nazionalizzazione” – sono uscite dalla bocca di Steve Bannon, ancora oggi l’oracolo ideologico della destra radicale americana. Proprio lui, nel pieno della lite mediatica, ha affondato il colpo più duro contro Musk: ha invocato un’indagine federale sull’arrivo del magnate in America, suggerendo che potrebbe essere stato un immigrato irregolare. La conseguenza? Deportazione immediata.
Migrazione, quindi, è il primo pilastro. Per Bannon, nessuno deve essere immune, nemmeno un astro del capitalismo come Musk. Il messaggio è chiaro: la linea dura sull’immigrazione vale per tutti. Non c’è spazio per le eccezioni, nemmeno se sei il fondatore di SpaceX. E la provocazione ha un precedente: già lo scorso dicembre, in piena transizione presidenziale, Bannon aveva tentato di abolire i visti per lavoratori altamente qualificati, usati da molte aziende tech. All’epoca perse la battaglia. Oggi sembra pronto a rifarsi con gli interessi. Il secondo colpo arriva con la parola nazionalizzare. Bannon accusa Musk di detenere un potere eccessivo nel campo spaziale e tecnologico e propone, senza troppi giri di parole, che le sue aziende siano sottoposte al controllo pubblico. Non è solo una ritorsione. È il segnale che dentro la galassia trumpiana si sta combattendo una guerra intestina tra i populisti anti-sistema e i capitalisti del tech, fautori dell’“American Dynamism”: uno scontro tra chi vuole murare i confini e chi vuole conquistare il mondo a colpi di innovazione.
E poi c’è la terza parola, costruzione, che nessuno pronuncia ma che aleggia su tutta la partita. Costruire significa riconquistare l’autonomia strategica, produrre chip in patria, dominare l’intelligenza artificiale, scommettere sulla supremazia tecnologica per tenere testa alla Cina. Musk, con la sua fame di progresso e la sua insofferenza per le regole, incarna questa visione futurista. Ma oggi si ritrova isolato, schiacciato tra due fuochi. Troppo indipendente per diventare il campione dei populisti, troppo irregolare per essere il volto rassicurante del capitalismo patriottico.
La verità è che Musk è solo il primo testimone di un terremoto più profondo. Il suo duello con Trump è stato solo un trailer del film che verrà: una lunga contesa per il controllo del potere, negli Stati Uniti e oltre. Per ora, il round lo ha vinto la vecchia guardia populista. Ma non è detto che duri. Perché, a differenza della prima stagione trumpiana, stavolta i capitalisti dell’innovazione sono già dentro il palazzo. Hanno accordi con il Pentagono. E tengono in mano i dati, i satelliti e i sistemi di difesa. Musk potrà anche essere messo ai margini, ma il suo mondo non uscirà di scena così facilmente. E questa, come si suol dire, è un’altra storia. Ma la prossima puntata arriva presto.





