«Chi non fa versi per il sincero bisogno di aiutare col ritmo l’espressione della sua passione, ma ha intenzioni bottegaie o ambiziose, e pubblicare un libro è per lui come urgere una decorazione o aprire un negozio, non può nemmeno immaginare quale tenace sforzo dell’intelletto, e quale disinteressata grandezza d’animo occorra per resistere ad ogni ornamento, e mantenersi puri e onesti di fronte a sé stessi». Così scriveva in un articolo Umberto Saba, uno dei più grandi poeti del ‘900. Nato il 9 marzo del 1883 a Trieste, Umberto Poli – questo il suo vero nome – ha vissuto quasi sempre con la madre, che lo tirò su da sola. Il padre, infatti, era insofferente a legami duraturi quanto familiari.
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Umberto Saba e lo «sforzo di mantenersi puri e onesti di fronte a sé stessi»
A tre anni Saba viene affidato a Gioseffa Gabrovich Schobar, detta “Peppa”, la balia, che con amore vedrà nel piccolo Umberto il figlio che lei stessa aveva perduto, e che da lui sarà fortemente ricambiata. Di colpo la madre torna a prenderlo e nulla sarà più come prima: il giovane Saba diviene ancora più introverso. Poeta non ascrivibile a nessuna corrente particolare, unico e inconfondibile, Saba è stato scrittore di straordinaria introspezione psicologica, che ha composto versi perlopiù a cavallo tra i due conflitti mondiali. Le poche righe poste in apertura, che riassumono il suo modus scribendi semplice e classico (non a caso qualche critico lo ha paragonato a Giacomo Leopardi) e la ricerca di una poesia nuda e onesta, erano state scritte per La Voce, rivista fiorentina del 1911, diretta allora da Papini e Prezzolini. Questi ultimi decisero però all’ultimo di non inserirli più nel numero, suscitando lo scoraggiamento del poeta stesso. Il testo è stato pubblicato, infatti, soltanto nel ’59 col titolo Quel che resta da fare ai poeti dopo la morte di Saba, avvenuta un anno prima a Gorizia.

Umberto Saba, voce autentica del Novecento: cosa pensavano di lui i contemporanei
Per Sanguineti il pregio di Umberto Saba è aver celebrato «il quotidiano nella sua dignità e nel suo naturale decoro»; per Borgese questi ha dato «una nuova forma snodata, ma senza quella ostentazione di prosaicità, che era la civetteria di un Gozzano e di un Moretti; Bonfiglioli riteneva che la tradizionalità dei mezzi espressivi coincidesse in lui con «l’originalità del suo impulso esistenziale». Eppure, nonostante l’apparente facilità, Saba è poeta raffinato. Per vincere la nevrastenia di cui soffriva si avvicina alla psicanalisi e alle teorie freudiane. La poesia non è mai stata per lui ricerca interiore fine a sé stessa, ma un modo per aprirsi alla vita, alla calda vita che vibra di persone, sensazioni. Tra memoria e malinconia, Saba compone con naturalezza il suo Canzoniere, la cui prima edizione risale al 1921. Si tratta di uno straordinario diario psicologico, il viaggio di un uomo destinato agli uomini, una sorta di romanzo che scava l’animo come forse raramente era stato fatto prima. Ma non è solo questo: la raccolta, sospesa come in sogno, intrisa di eros e libido, è una incessante indagine sull’esistenza.

Le poesie più belle di Umberto Saba: da “Amai” a “Trieste”, passando per “A mia moglie”
Tra le sue poesie più famose Amai, che è considerata il manifesto poetico del triestino, in cui Umberto Saba afferma di esser rimasto incantato dalla «rima fiore amore, la più antica difficile al mondo» e di aver amato appunto «la verità che giace al fondo». Trieste, che è un omaggio alla sua cosmopolita città, che egli paragona ad «un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore», e La Capra, un componimento che conferma le sue origini ebraiche da parte di madre e il suo conseguente antisemitismo, in cui si legge «Il dolore è eterno, ha una sola voce e non varia». La lirica che certamente si fa studiare sin dall’elementari, però, è A mia moglie, che il poeta dedica alla sua dolce compagna Lina, paragonandola a tutti gli animali della creazione. È lui stesso a raccontare l’origine di questa lirica che ha tutta l’aria di essere una sorprendente dichiarazione:
«Un pomeriggio d’estate mia moglie era uscita per recarsi in città. Non avevo voglia di leggere; a tutto pensavo fuori che a scrivere una poesia. Ma una cagna, la lunga cagna della terza strofa, mi si fece vicino, e mi pose il muso sulle ginocchia, guardandomi con occhi nei quali si leggeva tanta dolcezza e tanta ferocia. Quando poche ore dopo mia moglie ritornò a casa, la poesia era fatta. […] La lesse. Mi aspettavo un ringraziamento e un elogio; con mia grande meraviglia, non ricevetti né l’una né l’altra cosa. Era invece rimasta male, molto male; mancò poco che litigasse con me. Ma è anche vero che poca fatica durai a persuaderla che nessuna offesa ne veniva alla sua persona, che era la mia più bella poesia e che la dovevo a lei».

Un gigante della nostra letteratura di cui si parla ancora troppo poco
A chi volesse assaporare la delicata poesia di Umberto Saba, ci sentiamo di suggerire la lettura per intero del suo meraviglioso Canzoniere, ripubblicato in tempi recenti da Einaudi. Poeta appartato e scontroso, dolce e per taluni versi infantile, schivo e timido, Umberto Saba è ancora oggi una delle voci più belle e autentiche della nostra letteratura. E di cui purtroppo ancora si parla poco.
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