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Trent’anni senza Massimo Troisi: ci manca ancora (e non solo al cinema)

Il 4 giugno 1994, poche ore dopo aver finito le riprese del Postino, Massimo Troisi si spegneva nella casa della sorella a Ostia, per un cuore troppo stanco, troppo fragile, troppo grande. Aveva 41 anni e la faccia di uno che aveva ancora mille cose da dire. Era il suo corpo ad avere fretta, non lui. Lui, come sempre, voleva prendersela con calma.

A trent’anni da quel giorno, Troisi non se n’è mai davvero andato. Lo si incontra nelle pause di certi dialoghi, in certe dichiarazioni d’amore un po’ impacciate, in quel modo unico di far ridere con una smorfia e commuovere con un silenzio. È rimasto lì, in un angolo della cultura italiana, dove stanno i grandi che non hanno mai gridato per farsi ascoltare. Un’icona anomala, che ha fatto della timidezza una bandiera e della delicatezza una forma di resistenza.

Massimo Troisi non è mai stato solo un comico. O meglio: lo è stato, ma alla sua maniera. Senza mai una battuta telefonata, senza cabaret, senza tormentoni da bar. La sua comicità era costruita su uno sguardo sghembo sul mondo, su un’incertezza esistenziale che diventava linguaggio. Ha rovesciato la figura del “napoletano” da sceneggiata, tutto guappi e mandolini, per restituirci una Napoli più vera: ironica, poetica, malinconica. Una Napoli che sapeva parlare piano e dire tutto. Con Ricomincio da tre, il suo primo film da regista nel 1981, ha scritto una nuova grammatica comica: surreale ma concreta, esilarante ma mai stupida. Non era più la comicità dell’italiano medio che si arrabatta, ma quella di un ragazzo che si interroga. “Non trovo una donna che mi capisca”, dice Gaetano, il protagonista. E in quella frase c’è già tutto: la ricerca dell’amore, del senso, di sé.

L’incertezza era la sua cifra. Non era un difetto, ma una poetica. In un mondo che correva, lui si prendeva il lusso di rallentare. Non sapeva scegliere, spesso non finiva le frasi. E in quell’interruzione, in quella sospensione, si apriva uno spazio per il pubblico: ridevi, ti immedesimavi, ti sentivi meno solo. Perfino la morte l’ha affrontata così, con una dolce ostinazione. Sapeva che il suo cuore malandato era un conto alla rovescia, ma voleva a tutti i costi finire Il Postino, la sua prova d’attore più intensa, il suo congedo. Il Postino è il testamento di un uomo che sapeva ascoltare. Lì, accanto a un Pablo Neruda anziano (un Philippe Noiret gigantesco), Troisi è un postino che scopre il potere delle parole. E lui, che di parole ne ha sempre usate poche, ci ha regalato l’ultima struggente lezione.

A distanza di trent’anni, l’influenza di Troisi è ovunque. In certi monologhi di Siani, nella vulnerabilità tenera di Valerio Mastandrea, nella comicità misurata di Pif o di Luca Marinelli quando si lascia andare. Ma nessuno è riuscito davvero a raccogliere il testimone. Perché Troisi era un unicum: non replicabile, non esportabile, non imitabile. Aveva il coraggio di sembrare debole. In un’epoca in cui il maschio doveva essere forte e sicuro, lui balbettava, si vergognava, amava senza sapere come si fa. E proprio per questo, ci ha insegnato a prenderci meno sul serio.

Ci manca Massimo Troisi, ma non in modo retorico. Ci manca perché oggi più che mai servirebbe qualcuno che sappia parlare senza urlare, ridere senza ferire, commuovere senza manipolare. Qualcuno che non abbia paura del silenzio. Ci manca la sua voce rotta, i suoi occhi stanchi e vivi, la sua arte gentile. Ci manca quel ragazzo che voleva “ricominciare da tre” perché “uno, due e tre li ho fatti… perché devo ricominciare da zero?”. Aveva ragione lui: certi punti fermi vanno difesi. E Massimo, con quella sua leggerezza ostinata, è uno di quei tre.