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Da Vigàta con amore. Sei anni senza Andrea Camilleri (ma con le sue parole addosso)

Difficile, se non impossibile, dimenticare uno come Andrea Camilleri. Aveva quella voce che ti sembra di conoscere da sempre: impastata di sale, di terra, di libri. Non amava spiegare, preferiva evocare. E ci riusciva benissimo. Sei anni dopo la sua morte, la sua narrativa ci parla ancora. Siamo ancora lì, tra Vigàta e la memoria. Camilleri se n’è andato il 17 luglio 2019, a 93 anni, dopo un mese di ricovero in terapia intensiva al Santo Spirito di Roma. Era caduto in casa, vittima di un arresto cardiaco. Nei giorni in cui era in silenzio, ci si interessava del suo stato di salute, si sperava in un miracolo. Lo vedevamo come un amico, un prezioso amico. Perché Camilleri è stato uno di quegli scrittori capaci di trasformare una lingua personale in un patrimonio collettivo e un angolo della Sicilia in una mitologia riconoscibile in ogni parte d’Italia. 

Un inizio senza clamore: regista, autore, docente

Il successo, quello vero, è arrivato tardi. Prima c’era stata tutta un’altra vita. Nato a Porto Empedocle il 6 settembre 1925, figlio di un ispettore portuale e di una madre profondamente cattolica, Camilleri cresce in una Sicilia segnata dal fascismo, dalla povertà e da un’oralità che diventa presto forma mentis. «La voce era tutto. Con la voce potevi affabulare, incantare, mentire», dirà poi. E infatti lui mentiva da bambino per gioco, ma già con un piglio da narratore. Dopo la guerra, che lo vede arruolato brevemente in Marina e poi disertore, si trasferisce a Roma per studiare regia all’Accademia d’Arte Drammatica, sotto la guida di Orazio Costa. Verrà espulso per insubordinazione, ma resterà nella capitale per sempre. Camilleri lavora in teatro, mette in scena per primo Samuel Beckett in Italia, scrive, adatta, dirige. Entra in Rai nel 1954 e partecipa alla stagione d’oro della televisione pubblica, firmando regie e sceneggiature di sceneggiati celebri come quelli del tenente Sheridan o del commissario Maigret. E intanto, insegna. Per anni è docente all’Accademia Silvio D’Amico, dove forma generazioni di attori e registi. Il Camilleri maestro precede il Camilleri narratore, ma ha la stessa voce: autorevole, ironica, generosa.

Il primo romanzo di Camilleri si intitolava «Il corso delle cose»

Nonostante scriva poesie fin da giovane, è solo a sessant’anni che Camilleri pubblica il suo primo libro. Si tratta di un romanzo, dal titolo, Il corso delle cose (1978), edito a sue spese. Nessun clamore, né successo, ma lui continua. È testardo, ostinato, insiste. Nel 1980 pubblica Un filo di fumo per Garzanti, dove per la prima volta compare Vigàta, la cittadina immaginaria che diventerà teatro di quasi tutta la sua narrativa. Un luogo che non è solo geografia, ma specchio di un’Italia, che cambia rimanendo sempre un po’ la stessa. Il salto decisivo avviene nel 1992, quando Leonardo Sciascia lo introduce ad Elvira Sellerio. Da lì nascono La stagione della cacciaIl birraio di Preston, e infine, nel 1994, La forma dell’acqua. È il romanzo che presenta al mondo Salvo Montalbano, commissario di polizia, uomo solitario, buongustaio, ruvido e malinconico. Un personaggio letterario tra i più amati d’Europa e che incarna una forma moderna del giallo mediterraneo.

L’importanza del siciliano 

Con Montalbano, Camilleri trova la sua voce definitiva. O meglio: la inventa. Una lingua ibrida, fatta di italiano, siciliano, calchi fonetici, ritmi musicali. Non è dialetto: è più una melodia. «Non si tratta di incastonare parole siciliane in un testo italiano, ma di seguire un suono, come in una partitura. Il risultato deve avere la consistenza della farina lievitata, pronta a diventare pane», diceva. Quella lingua ha affascinato milioni di lettori, traduttori, studiosi. È diventata una forma di resistenza alla semplificazione, un modo per affermare che l’identità, anche linguistica, può essere fertile, complessa. E proprio attraverso quella voce, Camilleri ha raccontato i mali dell’Italia: la corruzione, la mafia, il potere, il clientelismo, la miseria morale. Sempre con leggerezza apparente, ma con una lucidità spietata. 

La cecità: Andrea Camilleri dettava i suoi romanzi negli ultimi anni 

Negli ultimi anni, quasi del tutto privo della vista, Camilleri dettava i suoi romanzi a voce, facendoseli rileggere per verificarne il suono. Ha scritto così decine di opere, romanzi storici, saggi civili, racconti e fiabe. Nel 2018 ha portato in scena «Conversazione su Tiresia» al Teatro Greco di Siracusa, raccontando la sua stessa condizione. «L’idea di raccontare e impersonare Tiresia, a parte la recente parentela di cecità, nasce proprio dalla voglia di pronunziare certe parole nel buio, la voglia di far risuonare il suono delle parole di Tiresia, e anche i versi di Eliot, nel buio della cecità. Nel mio testo c’è un momento in cui cito Borges e dico che le parole di Sofocle ascoltate nel buio della cecità acquistano il suono della verità assoluta. Insomma, ho scelto Tiresia d’impeto. Quando mi è stato chiesto che personaggio avrei voluto fare a Siracusa, me lo sono subito sentito dentro, forse perché al punto in cui sono arrivato mi piacerebbe avere una idea più precisa dell’eternità. A 93 anni, hai certezza del fatto che l’eternità ti stia venendo incontro, qualunque essa sia, e qualunque forma essa abbia», raccontò a «L’Espresso». Aveva in preparazione uno spettacolo su Caino, da rappresentare alle Terme di Caracalla. Avrebbe dovuto segnare il suo grande ritorno in teatro. La morte però non gli ha lasciato il tempo necessario.

Le sue opere sono state tradotte in oltre trenta lingue

Le sue opere sono state tradotte in oltre trenta lingue. Ha ricevuto una decina di lauree honoris causa, e il plauso di molti premi letterari. Ma Camilleri è rimasto sempre lo stesso: un artigiano della parola, uno che parlava della morte come del vino, senza paura e con gusto. «Non ho paura di niente, neanche della morte. Io e lei ci rispettiamo. Accogliere la morte è un atto dovuto, è saggezza. Sei già morto nell’atto stesso della tua nascita», era questa la sua posizione. «Quando una persona nasce riceve un ticket, nel quale c’è tutto: malattie, gioie, disavventure. E la morte. È tutto compreso nel prezzo del biglietto, che però non si apre facilmente», disse una volta sintetizzando il suo pensiero sul senso della vita. 

Il suo nome legato al successo televisivo de «Il Commissario Montalbano»

Oggi il nome di suo resta legato indissolubilmente al successo televisivo del Commissario Montalbano, interpretato da Luca Zingaretti, che ha contribuito a portare le sue storie in milioni di case. Ma Camilleri è stato (ed è) molto di più: il custode di un’etica letteraria, di una Sicilia che non è folklore, ma lente per comprendere meglio il mondo e quel che vi accade. Un intellettuale che ha saputo essere popolare, senza mai essere banale. Nel romanzo postumo Riccardino, pubblicato nel 2020, Camilleri chiude il cerchio. Lo aveva scritto nel 2005, poi rivisto nel 2016. Lo conservava in cassaforte, perché uscisse dopo la sua scomparsa. È il libro in cui autore e personaggio si confrontano apertamente. Una riflessione metanarrativa sulla vecchiaia, sull’identità, sulla fine. E ancora una volta, sul senso del raccontare. Sulla nascita di Montalbano, Camilleri confidò: «Raccontai a mio padre sul letto di morte la trama del mio primo romanzo. E lui mi disse: ‘Promettimi che lo scrivi come lo hai raccontato a me, mezzo in italiano e mezzo in siciliano’. E io promisi». 

Andrea Camilleri più vivo che mai

A sei anni dalla scomparsa, Andrea Camilleri è più vivo che mai. È vivo nel linguaggio, nell’immaginario, nei ragazzi che scoprono Montalbano a scuola, nei lettori che tornano a Vigàta per trovare un po’ di chiarezza in un mondo che ne offre sempre meno. Ha scritto per tutta la vita, ma soprattutto ha saputo ascoltare. Camilleri è stato uno di quei pochi affabulatori capaci di farci sentire capiti. Di farci ridere, pensare, ricordare. Di farci compagnia senza essere mai invadente. E noi siamo ancora lì, immersi dentro quel racconto che non ha mai smesso di camminare. Perché i libri sopravvivono a chi li scrive e appartengono a chi ha la bontà di annusarli, sfogliarli, leggerli.