Primo Levi compone “Se questo è un uomo” tra il dicembre 1945 e il gennaio 1947. Il libro viene segnalato alla Einaudi e ad altri che però rifiutano di pubblicarlo. Esce allora nel novembre del ‘47 per la piccola casa editrice De Silva, diretta da Franco Antonicelli. «Si stamparono 2500 copie, poi la casa editrice si sciolse e il libro cadde nell’oblio, anche perché in quel tempo di aspro dopoguerra, la gente non aveva molto desiderio di ritornare con la memoria agli anni dolorosi appena terminati», spiega lo stesso autore nell’appendice scritta nel ’76. Il libro trova nuova vita nel 1958, quando viene ristampato proprio da Einaudi nella collana “I Saggi”, dopo un’accurata revisione lessicale e l’aggiunta di alcune parti. (continua a leggere dopo le foto)
Leggi anche: Gerusalemme, i familiari degli ostaggi a Gaza hanno fatto irruzione nel Parlamento

Primo Levi e i tre grandi traumi vissuti ad Auschwitz
Nel ’59 escono le prime traduzioni in Inghilterra e negli Stati Uniti, nel ’61 l’opera arriva in Francia e Germania. L’intento di Primo Levi quello di documentare il maggior crimine commesso contro l’umanità affinché non si ripeta. Per lui ricordare è costruttivo, utile; è un’azione propositiva. E sin da subito sente su di sé il peso di farsi testimone: «Non si può vincere con le proprie forze un Lager. Sono stato fortunato: per essere stato chimico, per aver incontrato un muratore che mi dava da mangiare, per aver superato le difficoltà del linguaggio; non mi sono mai ammalato, mi sono ammalato solo una volta, alla fine, e anche questa è stata è stata una fortuna, perché ho evitato l’evacuazione del Lager», raccontò Primo Levi in un’intervista concessa al giornalista Ferdinando Camon, pubblicata per intero da Garzanti nel 1991. (continua a leggere dopo le foto)

Primo Levi svela i tre grandi traumi vissuti ad Auschwitz
E sempre a Camon lo scrittore svelò i tre grandi traumi della sua dolorosa prigionia: la mancanza di solidarietà tra i detenuti, l’isolamento linguistico e quindi l’impossibilità di comprendere gli ordini che venivano urlati nel campo. «Io, l’ho sempre detto che sono stato fortunato, mi sono trovato a possedere un minimo di lingua tedesca, l’avevo studiata come chimico e ho potuto instaurare una certa comunicazione con i non italiani e questo era fondamentale per capire dove vivevo (…) e anche per percepire un senso di unione. (…) Ricordo che quando si stabilirono dei contatti con i prigionieri francesi, ungheresi e greci, ci sembrava di essere saliti di un gradino», chiarì Primo Levi al giornalista. (continua a leggere dopo le foto)

Il bisogno di farsi testimone e l’uscita di “Se questo è un uomo”
Ai prigionieri, privati della loro dignità, allontanati da parenti e amici, spogliati, senza i propri oggetti personali, lo sappiamo, veniva impresso un numero di matricola, che ne svuotava completamente l’identità. 174517, quello che venne tatuato sul braccio sinistro di Primo Levi al suo arrivo in quell’inferno a cielo aperto che era Auschwitz il 26 febbraio 1944. La più totale disumanizzazione dell’uomo, un’esperienza devastante per Levi, «tale da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa» avuta: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio», la sua amara conclusione.
Leggi anche: Liliana Segre e il sogno rimasto nel cassetto





