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Perché il Festival di Sanremo ci incastra sempre?

Allo scadere di Gennaio succede di svegliarsi e udire, fra il rombo di un motore e il cinguettio di un pettirosso, un’abbozzo di melodia. Succede tutti gli anni, è l’effetto Sanremo quel vociare di sottofondo che precede l’avvio del Festival. Giunto alla 74° edizione, in svolgimento dal 6 al 10 Febbraio 2024, è destinato a captare gli sguardi di tutti gli «amici vicini e lontani», com’ era solito salutare Nunzio Filogamo, primo conduttore della kermesse. Oggi diremmo «telespettatori vicini e lontani», per quella capacità di attrarre a sè, in un modo o nell’altro, anche i più reticenti. Nel bene o nel male di Sanremo basta che se ne parli, e noi ne parleremo tantissimo, potete scommetterci. Lo dice la Storia.

Sanremo, gli albori di un mito

Un floricoltore, un Casinò e tanta voglia di riscatto. Sono questi gli ingredienti che hanno abbozzato il primo Festival della canzone italiana. Tenutosi nel 1951, gli anni del secondo dopoguerra sono pregni di quella forza propulsiva che spinge le mani a creare e le menti a sognare. Come quella di Amilcare Rambaldi, floricoltore ed ex partigiano, memore della kermesse natalizia napoletana organizzata presso il Casinò di Sanremo quattordici anni prima. Il giovane intuisce la portata rivoluzionaria dell’evento che, se traslato in ottica nazionale, avrebbe potuto rivitalizzare le sorti dell’economia sanremese. Con l’appoggio di Pier Busseti, gestore del Casinò, il salone delle feste cambia vesti, popolato da una platea nuova, ospiterà le prime edizioni del Festival. Da quel 1951, critici dell’epoca, appassionati di musica e turisti di passaggio si daranno appuntamento all’edificio in stile Liberty in Corso degli Inglesi 18. Dapprima con la leggerezza di un evento mondano -si pensi che per le prime edizioni era consentito cenare e conversare durante le esibizioni- in seguito con la partecipazione delle case discografiche a portare le dinamiche del mercato musicale. Sono gli anni di Grazie dei fior, Papaveri e papere e Vola Colomba. I cantanti in gara sono pochi, due o cinque, tenuti ad interpretare più di un brano. La svolta nel 1955, il Festival entra nelle case degli italiani, è la prima edizione ad essere trasmessa dalla Rai, nonché la prima finale a conquistare l’Eurovisione. L’eco del successo giunge sono ai palazzi europei, nel 1956 nasce l’Eurovision Song Contest, di diretta ispirazione al Festival italiano. Lo stesso che due anni dopo decreterà il lancio internazionale di Domenico Modugno e Johnny Dorelli con Nel blu dipinto di blu. Gli anni passano, le regole cambiano, con sperimentazioni che vedono alternarsi grandi successi a periodi di declino. Si apre l’ Era Bongiorno con le undici conduzioni non consecutive di Mike e dei cosiddetti “urlatori”. Dei giovani Mina, Celentano, Bobby Solo, Gino Paoli e i gruppi beat, troppo avanti per essere compresi in un tempo in cui la musica melodica faceva da padrone. Legato all’edizione del 1967 rimarrà sempre il tragico suicidio di Luigi Tenco. Le conduzioni targate Baudo lanceranno Al bano, Fausto Leali e Massimo Ranieri, «tutti e tre, in modi diversi, ben piantati nei caratteri eterogenei dei ragazzi di allora» come descritti da Serena Facci e Paolo Soddu nel volume “Il festival di San Remo” edito da Carrocci. Festival che assumerà il volto dell’Ariston solo nel 1977, per puro caso. La kermesse si sposta al civico 212 di via Matteotti per lavori di ristrutturazione. Il resto è storia.

Scatto dal primo Festival di San Remo 1951

Vi siete mai chiesti perché Sanremo non conosca crisi?

“Perché Sanremo è Sanremo” risponderebbe Pippo Baudo e l’omonimo, Pippo Caruso, compositore del fortunato motivetto. A dirla tutta, negli anni ’70 qualche crisi c’è stata. Complice la reticenza a dare spazio, nelle serate di Auditel più fortunato, alla realtà del paese, fatta di contestazioni e tumulti, unita alle derive erotiche considerate scandalose per l’epoca, il Festival tocca il fondo nel 1975. Edizione qualificata dalla critica come «la più infelice e, se si vuole, la più insulsa nello scollamento tra realtà e rappresentazione». Una depressione subito sanata grazie all’opera di ristrutturazione Rai. L’apertura dell’Ariston al racconto dell’attualità, la separazione dei cantanti in Big e Nuove Proposte e l’introduzione del Premio della Critica dedicato a Mia Martini, sono i tre perni da cui San Remo ha preso la spinta per divenire un’istituzione.

“Dio, patria, famiglia”. No, tranquilli, questa volta non è l’insaziabile Presidente del Consiglio ad aver sceso la scalinata dell’Ariston in preda alla perpetua campagna elettorale, anche se, diciamolo, quel palco fa gola anche a chi le corde vocali le consuma a forza di sbraitare. Il Festival di Sanremo è l’evento nazional-popolare che più di tutti tiene incollate agli schermi intere famiglie, dentro e fuor di patria. Manca il primo elemento, la divinità. Per scorgerla, basta interpellare il pensiero dei padri della sociologia. Durkheim e Collins, analizzando le diverse professioni di fede, dalle primitive tribù totemiche alle grandi religioni istituzionalizzate, hanno elaborato la teoria dei rituali condivisi. In versione laica, il Festival ben si conforma agli archetipi del rito. Una moltitudine di persone sintonizzate sulle stesse onde emotive, una simbologia chiara intrisa di valori comuni- l’Ariston, i fiori e la statuetta con leone e palma- e una straordinaria capacità di rafforzare il senso di appartenenza di chi vi partecipa dopo l’ennesimo scambio di opinioni. Guardando Sanremo, la comunità venera sé stessa. Non più totem e balli in cerchio ma televisioni e divani intorno. Piace a tutti e, se non piace, si presta a commento. Ogni anno col suo piccolo scandalo, la polemica Sanremese tiene banco per diverse settimane, prima e dopo. Resta solo da scoprire quale sia la prossima.