Se ho scelto di dedicare la vita a quel «privilegio straordinario e terribile» che è il giornalismo, lo devo ad Oriana Fallaci. E, come a me, sarà capitato a tante altre. Perché per le donne degli ultimi venti, trenta, quarant’anni, Oriana Fallaci ha rappresentato un punto di partenza e arrivo. Impossibile non fare i conti con lei, sognare di essere come lei. L’elmetto in testa da inviata di guerra, la camicia da uomo con le maniche rimboccate, l’eye-liner nero deciso, segno quest’ultimo di una «femminilità orgogliosa, dell’ambizione inconfessata che le nostre madri ci avevano trasmesso», come ha scritto Giovanna Botteri nella prefazione de «Il Sesso inutile» (1961), libro reportage sulla condizione della donna, che portò la Fallaci in India, Pakistan, Indonesia, Hong Kong, Giappone, fino a New York, dove avrebbe poi deciso di trasferirsi. Quell’America visitata per la prima volta nel 1956 per raccontare i retroscena sulla vita mondana dei divi (tutto materiale che sarebbe finito ne «I sette peccati di Hollywood»); in cui fece ritorno all’indomani dello sbarco dell’uomo sulla luna (del 1965 è l’intenso diario «Se il sole muore»); e sempre a Manhattan è ambientato il romanzo d’esordio «Penelope va alla guerra», uscito nel 1962.

Nasceva oggi Oriana Fallaci
Il primo libro di Oriana Fallaci che ho letto me lo regalò mia madre: «Lettera a un bambino mai nato» (1975). È forse il romanzo più famoso, ancora oggi non riesco a leggerlo senza provare una sensazione di dolorosa tristezza mista a rabbia. Perché «Lettera a un bambino mai nato» è una feroce difesa della vita, quella vita che Oriana Fallaci amava follemente. «Anche nei momenti di disperazione più nera, di dolore più cupo, io sono sempre stata contenta di essere nata. Ho sempre pensato che la vita è bella anche quando è brutta, e Dio sa quanto può essere brutta perché gli esseri umani sono così cattivi. Ma adesso, con il cancro, con la malattia, sono ancora più contenta di essere nata che quando mi succede qualcosa di bello, qualcosa di buono, il bello è ancora più bello, il buono è ancora più buono», disse in una delle sue ultime interviste, prima che l’«Alieno» se la portasse via. Il 15 settembre del 2006 quando al tg annunciarono la sua morte ricordo che piansi. Non c’erano i social, ero una ragazzina, allora, tutt’al più, si annotava qualcosa sul diario di scuola. E rammento di aver scritto qualcosa come: non la incontrerò mai. Sarà stata l’irreversibilità della cosa, ma da allora ho cercato di dialogare con lei attraverso i suoi libri. Quando ho bisogno di leggere qualcosa di buono, riprendo il suo «Interviste con la storia», le sue lettere raccolte ne «La paura è un peccato» o «Un uomo», il cui protagonista Alekos Panagulis rappresentava per lei l’incarnazione compiuta dell’eroe. Romanzo quest’ultimo che tutte avremmo voluto scrivere, tanto è sincero, intenso.

«Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere?»
L’ho sempre sentita vicina: «Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: ‘Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?’». Chi viene dal nulla, non ha santi in paradiso e desidera fare della scrittura un mestiere queste parole se l’è sentite dire, eccome. Tanti, invece, non possono capire.
La considero cara ancor di più oggi, forse perché ho accumulato qualche momento felice e qualche delusione, quando lei scrive: «Devo al giornalismo ciò che sono, ogni esperienza buona o cattiva della mia vita, ogni gioia, ogni dolore forse. (…) Mi ha portato nel mondo dello scrivere e mi ha fatto vedere cose che altrimenti non avrei mai visto. Sono e sono stata testimone diretta della Storia del mio tempo grazie al giornalismo». Una narratrice formidabile, una giornalista che non ha mai avuto paura «di dire pane al pane, vino al vino, e cretino al cretino», correndo anche il rischio di sbagliare. Sì, perché la sua più grande eredità è forse questa: avere coraggio. Sempre.





