Se ne è andato come aveva vissuto: in grande stile, tra le luci e le ombre che hanno segnato tutta la sua vita. Ozzy Osbourne è morto ieri sera, a 76 anni, appena 17 giorni dopo quel concerto gigantesco a Villa Park, lo stadio del suo amato Aston Villa, nella sua Birmingham operaia. Un concerto che, a rivederlo oggi, aveva il sapore del congedo, del passo d’addio definitivo.
Seduto su un trono, la voce tremolante, il ventolin per respirare, Ozzy aveva commosso il mondo. Tormentato dal Parkinson, che lo affliggeva da cinque anni, e logorato da una vita di eccessi, si era comunque esibito, da solo e con i ritrovati Black Sabbath, di fronte a 42mila fan in lacrime e milioni di spettatori online. Quasi sapesse che non ci sarebbe stato un altro bis.
Il tributo del metal mondiale al suo padrino
C’erano tutti, quella sera. Metallica, Guns N’ Roses, Slayer, Anthrax, Pantera e molti altri ancora. Perché tutti qualcosa dovevano a Ozzy, il padrino dell’heavy metal, il primo a trasformare il rumore in linguaggio, la rabbia in arte. Un omaggio globale nella città dove tutto era cominciato, tra i mattoni rossi di Aston, nel cuore della Birmingham industriale. Un ritorno alle radici, una chiusura simbolica, nel quartiere dove da ragazzino faceva i parcheggi abusivi fuori dallo stadio.
«Se non avessi fatto il cantante, avrei fatto il ladro», raccontò una volta, con la sua ironia ruvida. E in effetti la sua gioventù era stata turbolenta: piccoli furti, riformatorio, lavoretti precari. Poi, nel 1968, l’incontro con Tony Iommi. Un inizio freddo, “non mi piaceva”, confessò il chitarrista, ma Ozzy aveva un amplificatore, e tanto bastava.
Con i Sabbath inventò l’heavy metal
Il resto è storia della musica. Con i Black Sabbath, Ozzy forgiò un suono nuovo, più cupo, più duro, in perfetta sintonia con l’anima grigia e arrugginita della Birmingham di allora. “Black Sabbath”, l’album eponimo, fu una rivoluzione. E poi vennero capolavori come “Paranoid”, “Master of Reality”, “Sabbath Bloody Sabbath”: dischi che posero le fondamenta dell’heavy metal e che ancora oggi fanno scuola. Ozzy divenne The Prince of Darkness, il Principe delle Tenebre. E si calò perfettamente nel personaggio: cocaina, alcol, party selvaggi, episodi grotteschi — una testa di pipistrello morsa sul palco, pensando fosse finta — che alimentarono una leggenda nera e irresistibile. Una vita oltre i limiti, che però finì per stancare anche i suoi compagni di band.
L’addio ai Sabbath, la salvezza con Sharon
Alla fine degli anni ’70, i Sabbath lo cacciarono. Ozzy era alla deriva, in preda a depressioni e dipendenze. A tenerlo in piedi fu Sharon Arden, figlia del manager della band. Lo aiutò a disintossicarsi, lo rilanciò come solista, e soprattutto gli fu accanto per tutta la vita, come moglie, manager, madre e comandante in capo. A volte dura, spesso provvidenziale. Con Sharon al timone, Ozzy costruì una solida carriera da solista, vendendo milioni di dischi, pur senza mai rinnegare il passato. E negli anni Duemila accettò persino di diventare personaggio televisivo, protagonista con la sua famiglia del reality “The Osbournes”, uno dei primi esperimenti di docu-sitcom della tv americana.
Una fine scritta con dignità, in musica
Ma Ozzy non era fatto per il piccolo schermo. Diceva di averlo fatto solo per compiacere Sharon. E così tornò alla musica. Prima da solo, poi di nuovo con i Sabbath. Fino al colpo del 2020: la diagnosi di Parkinson, e una serie di dolori cronici che lo costrinsero a cancellare i tour e a muoversi a fatica. Eppure non si è mai arreso. Fino all’ultimo ha voluto salire su quel palco, raccontare la sua storia con la voce spezzata ma con la dignità di un guerriero. Il concerto del 5 luglio, a Villa Park, è stato il suo epitaffio. Doloroso, struggente, ma anche epico.
Ozzy Osbourne se ne va così, in modo teatrale e sincero, proprio come aveva vissuto. Il sipario cala. Ma il rombo che ha lasciato nell’anima del rock non smetterà mai di farsi sentire.





