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Morto Giancarlo Santalmassi: addio al giornalista volto storico della Rai

Se n’è andato nella notte tra il 4 e il 5 giugno Giancarlo Santalmassi, uno di quei cronisti che parlavano e l’Italia si metteva in silenzio ad ascoltare. Aveva 84 anni ed era ricoverato alla clinica Quisisana di Roma, dove si è spento dopo una breve malattia. Il Sole 24 Ore ha dato per primo la notizia, ricordando il suo periodo alla guida del radiogiornale di Radio 24 e la conduzione del talk show Viva Voce. Con lui scompare un pezzo di Tv in bianco e nero, di radio che si faceva con la bobina e di giornalismo in cui l’“esclusiva” era un colpo di telefono, non un tweet.

Il cordoglio della Rai: “Perdiamo una colonna del servizio pubblico”

Il vertice Rai ha reagito in blocco: l’amministratore delegato Giampaolo Rossi, il direttore generale Roberto Sergio e l’intero CdA hanno diffuso una nota di poche righe ma molti significati, parlando di “un maestro che ha insegnato a raccontare la notizia senza indulgere al sensazionalismo”. Parole sentite, certo, ma anche un sottotesto: senza la sua impuntatura sul rigore, raccontano dagli studi di Saxa Rubra, il Tg2 sarebbe forse diventato un rotocalco più lieve, meno d’impatto. Il saluto di Viale Mazzini ai familiari è arrivato in diretta sui canali all-news, a testimonianza di quanto l’azienda si senta debitrice verso il suo storico volto.

Dalla cronaca alla storia: Moro, Papa Wojtyła e Alfredino

Roma, 16 marzo 1978, ore 10:01. Santalmassi, con voce ferma e volto impietrito, interrompe la programmazione: «È stato rapito l’onorevole Aldo Moro, uccisi gli uomini della scorta». Quel segmento resterà inciso nella memoria collettiva come l’istante in cui l’Italia capì di essere davvero entrata negli anni di piombo. Tre anni dopo, sarà di nuovo lui, più maturo ma non meno incisivo, a raccontare l’attentato a Giovanni Paolo II in piazza San Pietro. Nel 1981 seguirà in diretta per tre giorni la tragedia di Vermicino, cercando parole umane per commentare il dramma di Alfredino Rampi. Per molti spettatori quel racconto minuto per minuto fu un corso accelerato di giornalismo sul campo: empatia senza retorica, freddezza quanto basta per non trasformare la tv in un sudario.

Una carriera in continua reinvenzione: dalla carta alla radio

Nato a Roma nel 1941, Santalmassi muove i primi passi nella redazione di Panorama negli anni Sessanta, passando poi alla Rai e diventando uno degli artefici di un linguaggio televisivo “alla americana”, più colloquiale e diretto. Ma a metà anni Novanta, quando molti coetanei pensano alla pensione, lui cambia ancora vita: nel 1994 approda alla radio, fonda Zapping e trasforma la fascia serale di Radio Rai in un’arena di dibattito politico con microfoni aperti e telefonate del pubblico.

Nel 1998 accetta la sfida del Sole 24 Ore: entra nel gruppo, diventa il primo direttore di Radio 24 (2005-2008) e porta in onda Viva Voce, talk show dalla linea “zero fronzoli, massima sostanza”. Da lì in poi la sua agenda diventa un labirinto di progetti: editorialista, opinionista, fondatore di InPiù, quotidiano digitale di analisi, dove continua a scrivere editoriali pieni di cifre e ironia anche dopo i settant’anni.

Il giornalismo come servizio: uno stile inconfondibile

Chi lo ha visto lavorare racconta che pretendeva due cose in primo luogo: verifica delle fonti e rispetto del tempo del pubblico. Ai praticanti del Tg2 ripeteva: «Se non serve, taglia; se non sai, chiedi; se non puoi verificare, non andare in onda». Un mantra che oggi, nell’epoca dell’infodemia, suona quasi profetico. Non era un trascinatore da corridoio, scherzava un collega, “ma in scaletta tirava fuori il fioretto”.

Un’eredità di rigore, passione e modernità

Con la scomparsa di Giancarlo Santalmassi si chiude un capitolo di giornalismo che metteva la notizia al centro e il giornalista un passo indietro, ma non troppo: giusto quanto basta per porre domande scomode. La sua lezione resta nei filmati d’archivio, nei podcast di Zapping, negli editoriali di InPiù e, più ancora, in generazioni di reporter che lo hanno avuto come mentore.

Chi lavorava con lui sostiene fosse capace di far riscrivere un servizio dieci volte pur di scovare il verbo più esatto. Qualcuno lo considerava pignolo; lui si definiva “artigiano della parola”. E forse è proprio questa la sua eredità più preziosa: l’idea che la prima forma di rispetto per il pubblico sia la precisione del linguaggio, che si parli del rapimento di Aldo Moro, di un decreto economico o di una semplice storia di costume. Oggi, mentre i coccodrilli si moltiplicano online, è facile scivolare nella retorica. Speriamo che, ovunque sia, abbia ancora un paio di quesiti pronti in tasca. Ci mancherà molto.