C’è chi lascia un’impronta nel fango e chi nella memoria. Alcune voci non dominano le classifiche, non riempiono gli stadi, non passano ogni ora in radio. Eppure restano. Perché c’erano all’inizio, quando ancora tutto era fragile, incerto, sconosciuto. Quella voce, ruvida, potente, un po’ fuori dagli schemi, è stata il primo microfono di una delle band più celebri della storia del rock. Ora si è spenta, nel silenzio di una casa australiana, lontano dalle luci della ribalta. Ma chi conosce la storia del metal britannico, sa bene di chi stiamo parlando.
Una vita tra pub e palchi
Il suo nome è Paul Mario Day, e nel 1975 fu il primo cantante degli Iron Maiden. A sceglierlo fu Steve Harris, allora ventenne, bassista e fondatore di una band che ancora cercava se stessa, tra pub londinesi e demo autoprodotti. La sua permanenza fu breve, meno di un anno. I Maiden di allora avevano sogni più grandi della loro stessa reputazione, e Harris cercava una voce che incendiasse il palco. Day, invece, era più tecnico, meno incendiario. Fu allontanato con la motivazione, crudele ma tipica del rock, di non avere il “giusto carisma”. Lui stesso, anni dopo, raccontò: “Cantare con gli Iron Maiden significava esibirsi in locali dove nessuno ti ascoltava. Eravamo solo ragazzi con strumenti e ambizione”.
Strange World, un credito mancato
Anche se non ha inciso nessun disco con la band, Day ha sempre sostenuto di aver partecipato alla scrittura di Strange World, uno dei pezzi più lirici e atmosferici del primo album degli Iron Maiden, uscito nel 1980. Il brano porta solo la firma di Harris, ma per anni Day ha raccontato di averne concepito la melodia e alcune liriche. “Fa male, ancora oggi. È come vedere il tuo bambino crescere altrove, senza sapere che è anche tuo”, confessò. Nel 2019 dichiarò di aver archiviato quella ferita: “Ho superato il rancore. So chi sono. So quello che ho fatto”.
Una carriera parallela al successo
Dopo la parentesi Maiden, Paul Mario Day non lasciò la musica. Entrò nei More, band che aprì concerti per i Motörhead e che fece parte della stessa ondata sonora – la NWOBHM, new wave of British heavy metal – che aveva dato i natali anche ai Def Leppard, Saxon e Diamond Head. Più tardi arrivarono i Wildfire, gruppo meno noto ma amato dai cultori del genere, e poi sorpresa la chiamata degli Sweet, band storica del glam rock inglese. Correva il 1985, e con Andy Scott e Mick Tucker, Day tornò sotto i riflettori.
Lontano dal rumore, ma non dalla musica
A metà anni Ottanta, il cantante decise di cambiare tutto: continente, stile di vita, orizzonti. Si trasferì in Australia, dove visse fino alla fine dei suoi giorni. Ma non smise mai di suonare. Piccoli concerti, collaborazioni locali, lezioni di canto. Per chi lo cercava, Paul c’era. Sempre con la sua voce, un po’ meno ruvida, ma ancora viva. Non era mai diventato una rockstar, almeno nel senso classico. Ma per molti era un eroe sommerso, un simbolo degli inizi, di quando si sogna con gli occhi aperti e si suona per pochi, senza sapere che un giorno tutto cambierà.
Una memoria indelebile nel cuore del metal
La notizia della sua scomparsa, riportata da Billboard e rilanciata da colleghi e musicisti, ha riaperto un capitolo nascosto del rock. Paul Mario Day è morto a 69 anni, nella sua casa australiana. Aveva dato voce a una band che sarebbe diventata un gigante. Eppure non ha mai preteso di cavalcare quel successo. Per lui, probabilmente, la musica era più fedele della fama, e più sincera del riconoscimento. La sua è stata una vita piena di suoni, incontri e piccole grandi conquiste.
E, sì, anche di qualche rimpianto. Ma nessun rimorso.





