A 84 anni, Lea Melandri, romagnola di nascita ma milanese d’adozione, è ancora oggi una delle voci più lucide del femminismo italiano. Presidente della Libera università delle donne, torna in libreria con un pamphlet che è insieme manifesto e provocazione: Dialogo tra una femminista e un misogino (Bollati Boringhieri). Il libro prende le mosse da un’urgenza drammatica: i femminicidi come emergenza nazionale, ma anche sentenze che ridimensionano la violenza domestica a semplici “lesioni”, come accaduto di recente a Torino. Un pugno in faccia, con frattura dell’orbita e riduzione della vista, fu giustificato dai giudici come “amarezza per la dissoluzione della comunità domestica”.
Il confronto con Weininger
Per riflettere, Melandri rilegge Sesso e carattere, testo del 1903 firmato dal filosofo austriaco Otto Weininger. Misogino e razzista, lo studioso descriveva la donna come “materia priva di senso”, “assenza di io intellegibile”. Un bestseller dell’epoca, ma con epilogo tragico: pochi mesi dopo, Weininger si tolse la vita a 23 anni. Immaginando un dialogo con lui, Melandri scava nei meccanismi patriarcali che continuano a influenzare la società contemporanea. E lo fa a partire dalla parola più difficile da pronunciare per il femminismo: amore. “Nominarlo è sempre stato complicato, perché significa ammettere che ne abbiamo bisogno. Ma vuol dire anche rivendicarlo: non solo darlo, ma riceverlo”, ha spiegato l’autrice in un’intervista concessa a «Repubblica».
“Il personale è politico”
Melandri non si sottrae a una riflessione autobiografica. Figlia unica di mezzadri, cresciuta in un casolare con otto persone senza servizi né riscaldamento, racconta di non aver mai capito, da bambina, dove finisse la violenza e cominciasse l’amore. “Per anni abbiamo creduto che fossero questioni private. In realtà, non c’è nulla di più politico del personale. Più scavi dentro di te, più scopri ciò che ti unisce agli altri. Il dominio maschile passa dall’oscurità dei corpi”.
Il ruolo di Gino Cecchettin
A segnare una svolta, secondo Melandri, sono state le parole di Gino Cecchettin, padre di Giulia, uccisa nel 2023. “Ha permesso un salto di consapevolezza, perché ha parlato ad altri uomini rivolgendosi a loro come genere. Se i maschi si pensano solo come individui, diranno che l’assassino non li riguarda. Se si riconoscono come genere, la responsabilità cambia”. Per Melandri la risposta sta nel superamento dei generi e nel riconoscimento della cura come responsabilità comune. “Maschile e femminile sono parti dell’umano. Il femminismo deve essere pratica collettiva, che coinvolge anche gli uomini. Le donne hanno ancora bisogno di percorsi condivisi: molte non riescono a dire di no neppure alle figlie che chiedono di tenere i nipoti. Abbiamo interiorizzato la visione maschile del mondo. La misoginia è anche dentro di noi”. Un problema, osserva, è che alcune donne hanno trovato potere nel vivere “per l’altro”. “Ma a quale prezzo?”, si chiede Melandri. Alla domanda se serva un’educazione affettiva a scuola, la femminista risponde con una provocazione:“Più che una materia a parte, basterebbe insegnare la storia attraverso il maschilismo e la virilità che l’hanno attraversata. È da lì che sono nati fenomeni come il fascismo”.
Perché rileggere Weininger oggi
La scelta di tornare a un testo di oltre un secolo fa non è casuale: “Weininger scriveva in un momento di cambiamento, quando nasceva il femminismo e compariva il soggetto imprevisto di Carla Lonzi. Oggi, come allora, servono strumenti per arrivare alle radici del problema. Per ricordarci che l’amore non è più una questione privata”.





