I dizionari sono d’accordo nel far derivare «guerra» dalla parola germanica «werra» o «werran», che aveva come significato «mischia», termine quest’ultimo che rimanda all’inatteso assalto dei «barbari» all’impero romano. È così che appare «Le parole per dirlo. La guerra fuori e dentro di noi», l’ultimo libro di Franco Di Mare, morto lo scorso 17 maggio all’età di 68 anni per un mesotelioma che non gli ha lasciato scampo. Si farebbe un torto all’autore definendolo un semplice mémoire, genere che necessita di un ego smisurato che il popolare giornalista non ha mai avuto. Di Mare era uno di famiglia, a lungo è entrato nelle case degli Italiani tutti i giorni. «La sua morte? È come fosse successo ad un amico o ad un parente», il commento di molti sui social. Che fosse tanto malato il pubblico l’aveva capito dopo l’intervista a «Che tempo che fa», la rapidità però con cui si è consumato l’inevitabile forse no. E ha reso tutto più doloroso, infausto.
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“Le parole per dirlo”, l’ultimo regalo di Franco Di Mare ai suoi lettori
Il libro che Franco Di Mare lascia è particolare, ibrido. Nelle intenzioni avrebbe dovuto essere «una sorta di piccolo dizionario esistenziale». Sette le parole scelte, selezionate con cura: «fibra», «assenza», «resilienza», «memoria», «amore», «storia» e «amici». Chi scrive ci culla nei ricordi che la sua mente fa riemergere nella «mischia» della sua esistenza votata tutta al giornalismo. Il racconto scorre su due binari diversi, che però prendono il via e convergono nella stessa direzione: la guerra, quella conosciuta ai tempi in cui lui era un inviato e quella vissuta nel privato contro la malattia. «Le parole per dirlo» raccoglie le esperienze di chi ha attraversato la storia mentre questa scriveva le sue pagine più crude. Tenendosi alla larga dal pietismo, con lo spessore umano e la sincerità che l’hanno sempre contraddistinto, Di Mare riporta i tanti esempi di coraggio e sacrificio a cui lui stesso ha assistito mentre era nell’ex Jugoslavia e in Kosovo, come la morte dei giovani innamorati Admira e Bosko, i Romeo e Giulietta di Sarajevo, come pure dell’incontro oscuro con la fibra di amianto.
«La incontrai, venti o trent’anni fa, da qualche parte laggiù, in un luogo imprecisato di quelle terre dolorose. Magari la incontrai proprio a Sarajevo ai primi di luglio del 1992, quando misi piede per la prima volta tra le rovine della capitale assediata dalla Bosnia Erzegovina. Non lo saprò mai», racconta il giornalista, «il solo dato certo di questa storia è che le aprii le porte della mia vita con un sospiro, in un momento qualunque, magari filmando lo scheletro di una fabbrica, attraversando un ponte distrutto, o commentando gli effetti di una pioggia di granate in città per il telegiornale della sera oppure, più banalmente, tu vallo a sapere, mangiando burek e bevendo rakija sul terrazzo di un ristorantino balcanico». È bastato «un respiro, uno solo. E da quel momento la fibra rimase lì, nascosta, per tutti gli anni a venire. Non potevo saperlo allora, ma in quell’istante avevo respirato la Morte».

La scoperta del mesotelioma accompagnata dal silenzio assordante della Rai
Una malattia che non è arrivata per caso: «Ho dormito in case diroccate, a terra, su brandine infilate tra i cingoli di mezzi blindati, in palazzi sventrati, nel retro di furgoni, tra le polveri sprigionate da quelle macerie che avvolgevano tutto e tutti e finivano poi nei polmoni, nel loro tessuto cellulare, per aspettare il momento di manifestarsi». E se Di Mare ha fatto tutto questo è stato perché si trattava del suo lavoro, gli si chiedeva di farlo, perché rispondeva «a una sorta di appello d’onore». Non si è tirato indietro, consapevole di essere gli occhi e le orecchie dei telespettatori. Allora si sentiva un privilegiato per essere un dipendente della Rai, lo dice a chiare lettere, fiducioso che mai l’azienda l’avrebbe lasciato solo. La scoperta del mesotelioma accompagnata da un assordante silenzio ha cambiato tutto: Di Mare parla di direttori generali, amministratori delegati, capi del personale, tutti spariti, liquefatti.
Un atteggiamento inatteso che lui condanna così: «Ciascuno di noi si comporta come sa, secondo coscienza, poi ci sono quelli che si comportano secondo il loro abituale costume, cioè in modo ripugnante». Nella «mischia» c’è del buono, il giornalista lo dice: il solo unico regalo della malattia è stato uno sguardo più profondo e leggero, un modo diverso di approcciarsi agli altri e al mondo.

Franco Di Mare e quella «gratitudine pazza» di cui parla Oriana Fallaci: a chi è destinato il suo ultimo libro
«Perché solo adesso? Perché diavolo non l’ho capito prima», è il grande tormento dell’autore, che sa in cuor suo che quella «lente deformante» non è accessibile a chi non sente vicina la fine. Il buono diventa molto più buono, il bello diventa molto più bello. È quella «gratitudine pazza» di cui parla Oriana Fallaci, altra inviata di guerra morta di cancro ai polmoni. Un libro che si rivolge «a chi sta male perché non perda il coraggio» ma soprattutto «a chi odia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie» e «a chi crede nella forza salvifica della scienza e dell’amore».
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