Sempre più trentenni si dichiarano esausti, svuotati, sopraffatti.
Non si tratta di semplice stanchezza, ma di un malessere più profondo che gli psicologi definiscono burnout, un esaurimento emotivo, mentale e fisico dovuto a stress prolungato.
Un tempo era considerato un problema dei manager o delle professioni ad alto rischio. Oggi, invece, colpisce studenti, neoassunti, freelance, creativi, lavoratori precari e perfino chi dovrebbe trovarsi nel periodo più energico della propria vita.
Perché una generazione che ha accesso a infinite opportunità si ritrova così spesso stanca a 30 anni?

Una pressione costante: essere tutto, subito
La generazione dei venti e trent’anni è cresciuta con un doppio messaggio:
“Puoi diventare ciò che vuoi” e, allo stesso tempo, “non stai facendo abbastanza”.
I modelli di successo sono ovunque: social, storie di startup, influencer, giovani milionari, vite perfette raccontate in tempo reale.
La pressione si traduce in:
- bisogno di prestazioni continue;
- ansia da competizione;
- paura di rimanere indietro;
- confronto costante con gli altri.
Secondo il Journal of Behavioral Health, il 62% dei giovani professionisti dichiara di sentirsi sotto pressione ogni giorno, un dato mai così alto nelle generazioni precedenti.
Lavorare sempre, lavorare ovunque
Una delle cause principali del burnout giovanile è il nuovo paradigma del lavoro.
La tecnologia ha reso possibile lavorare ovunque e in qualsiasi momento: una conquista, ma anche un rischio.
La reperibilità continua
Email, chat aziendali, call improvvise.
Il confine tra tempo personale e tempo lavorativo è diventato sfumato.
Uno studio di Deloitte mostra che il 48% dei giovani controlla la posta di lavoro anche di notte o nel weekend.
La cultura dell’iperproduttività
Molti settori promuovono una mentalità basata su “hustle”, “grind”, “lavorare finché non ce la fai più”.
Frasi come “chi dorme non piglia pesci” o “hai lo stesso numero di ore di Beyoncé” non motivano: logorano.
Precariato emotivo
Contratti brevi, partite IVA obbligate, salari instabili.
La precarietà non è solo economica: è anche psicologica.
Significa non sapere come sarà il prossimo mese, non potersi permettere pause, non sentirsi mai al sicuro.
Burnout non è debolezza: è biologico
Il burnout non è un segno di fragilità, ma una reazione del cervello a uno stress cronico.
Quando la pressione è costante, il sistema nervoso entra in modalità difensiva: produce cortisolo in eccesso, riduce la capacità di concentrazione e altera la regolazione emotiva.
I sintomi più frequenti sono:
- stanchezza persistente nonostante il sonno;
- irritabilità e sensazione di essere “al limite”;
- calo di memoria e lucidità;
- difficoltà a prendere decisioni;
- cinismo, distacco emotivo;
- perdita di motivazione anche verso ciò che si ama.
È una condizione reale, riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, e non un capriccio generazionale.
L’ansia da prestazione sociale
Non c’è solo il lavoro.
La generazione dei trentenni deve anche fare i conti con aspettative sociali sempre più alte:
- trovare un lavoro stabile,
- essere economicamente indipendenti,
- costruire una relazione solida,
- pianificare un futuro incerto.
Molti sentono di dover essere adulti perfetti, ma con poche risorse e poca stabilità.
È uno sfasamento che crea frustrazione e senso di fallimento.
I social amplificano la fatica
Ogni giorno siamo sommersi da immagini di vite ordinate, di case perfette, di viaggi continui, di corpi scolpiti e carriere brillanti.
Non è solo invidia: è una distorsione percettiva.
- Ci confrontiamo con una versione ideale degli altri.
- Sentiamo di dover dimostrare qualcosa.
- Non riusciamo a “staccare”, nemmeno mentalmente.
Uno studio dell’Università di Copenhagen ha evidenziato che chi passa più di due ore al giorno sui social è più soggetto a stress e burnout emotivo.
Vivere in un mondo complesso
La generazione dei 30 anni è la prima a crescere in un contesto caratterizzato da:
- crisi economiche ricorrenti,
- pandemia globale,
- precarietà climatica,
- instabilità geopolitica,
- costante incertezza.
Non sono semplici sfide, ma fattori che alimentano un senso di vulnerabilità permanente.
Il cervello, bombardato da notizie negative e scenari instabili, si affatica più rapidamente.
Il burnout da perfezionismo
Il perfezionismo moderno non riguarda solo il lavoro: riguarda la vita intera.
- Casa impeccabile.
- Hobby seguito con costanza.
- Relazioni curate nei dettagli.
- Fisico in forma.
- Produttività altissima.
- Agenda piena.
Il rischio? Trasformare la vita in una lista infinita di compiti.
E quando ogni attività diventa una prestazione, il cervello va in tilt.
Cosa può aiutare davvero
Non esiste una soluzione unica, ma ci sono strategie efficaci:
Ripensare il concetto di successo
Non “fare tutto”, ma fare ciò che è significativo.
La vera rivoluzione è rallentare senza sentirsi in colpa.
Stabilire confini
Spegnere notifiche, impostare orari, proteggere il tempo libero.
Il riposo non è tempo perso: è manutenzione mentale.
Coltivare relazioni autentiche
Parlare con amici, partner, colleghi.
L’isolamento amplifica il burnout: la connessione lo riduce.
Normalizzare la vulnerabilità
Chiedere aiuto non è debolezza, ma lucidità.
Terapeuti, psicologi e professionisti della salute mentale sono risorse preziose.
Ritrovare attività senza scopo
Camminare, leggere, disegnare, giocare.
Fare qualcosa senza un obiettivo preciso è uno dei modi migliori per calmare il sistema nervoso.

Una generazione fragile o una generazione lucida?
La generazione dei trentenni non è più fragile delle altre: è più esposta, più consapevole e più schiacciata da richieste che nessuno aveva mai vissuto in questa forma.
Il burnout non è un difetto personale, ma il sintomo di un modello sociale che chiede troppo e concede poco.
Forse la domanda chiave non è “perché siamo così stanchi a 30 anni?”, ma:
che tipo di società stiamo costruendo se la normalità per i giovani adulti è sentirsi costantemente esausti?
Fonti e approfondimenti:
- World Health Organization, Burnout as an Occupational Phenomenon
- Deloitte, Global Millennial and Gen Z Survey
- Harvard Business Review, The Epidemic of Workplace Burnout
- University of Copenhagen, Social Media Fatigue Studies
- Journal of Behavioral Health, Stress and Young Workforce Reports
Foto di Nataliya Vaitkevich e Foto di Ketut Subiyanto e Foto di Karola G





