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190 anni nasceva Giosuè Carducci, il poeta che sfidò il suo tempo e vinse il Nobel 

Romantico per forza di cose, ma classicista per scelta, Giosuè Carducci è stato un personaggio scomodo e affascinante, un poeta che non si è mai accontentato della quiete letteraria né delle verità imposte. A centonovant’anni dalla nascita, il suo nome resta inciso tra le colonne portanti della cultura italiana. Ma dietro il busto marmoreo c’è molto di più: un uomo iracondo e tenero, scandaloso e rigoroso, che ha attraversato il Risorgimento con la penna in pugno e il vino in tavola.

L’infanzia toscana e il richiamo della natura

Nato il 27 luglio 1835 a Valdicastello, piccolo borgo nei pressi di Lucca, Carducci respirò fin da bambino l’aria selvaggia della campagna toscana. Una natura che non fu mai solo sfondo, ma vera e propria musa. Nei suoi versi si sente il frinire delle cicale, il fragore del mare, la solennità delle querce. L’ambiente agreste lo formò poeticamente molto più di quanto fece poi la retorica accademica.

Trasferitosi a Pisa per gli studi, fu ammesso alla Scuola Normale Superiore, dove si laureò in Filologia nel 1856. Già allora emergeva il suo spirito ribelle. Mentre il Romanticismo conquistava i salotti letterari, lui fondava con gli Amici Pedanti un manipolo di “duri e puri” che invocavano il ritorno ai classici. “Chi può dir qualcosa in dieci parole e ne usa dodici, è capace delle peggiori azioni”, dichiarava senza mezzi termini.

Tra lutti, ideali e polemiche: un uomo in trincea

La vita privata del giovane Carducci fu segnata da dolori strazianti. La perdita del fratello, morto suicida, poi quella del padre, lo costrinsero a un’improvvisa maturità. Nonostante le sofferenze, fu un periodo di grande produttività. Si sposò con Elvira Menicucci e divenne padre di quattro figli, ma la vita non gli risparmiò altri colpi bassi: la morte del piccolo Dante, nel 1870, a soli tre anni, ispirò una delle sue poesie più celebri e toccanti, Pianto Antico.

La politica lo attrasse come naturale estensione della poesia. Visse con passione e disillusione il Risorgimento. Insegnò prima a Pistoia, poi all’Università di Bologna, da cui fu sospeso a causa delle sue posizioni anticlericali e giacobine. Il suo Inno a Satana, pubblicato nel 1863, fece scandalo: non un’ode al Male, ma una provocazione contro l’ipocrisia del potere religioso. Il diavolo, in quel contesto, era il simbolo della libertà e del progresso.

Tra monarchia e ribellione: la parabola politica

Curiosamente, il repubblicano incendiario si lasciò sedurre dalla monarchia. Incontrò la Regina Margherita nel 1878 e ne fu talmente colpito da dedicarle l’ode Alla Regina d’Italia. Una conversione improvvisa? Forse. O forse solo la consapevolezza che la poesia, come la politica, ha bisogno di simboli potenti. Nel 1890 fu nominato senatore del Regno, e nel 1906 ottenne il Premio Nobel per la Letteratura. Era il primo italiano a riceverlo. Ma dietro le glorie pubbliche restava sempre l’uomo che amava mangiare e bere bene, discutere con gli amici, polemizzare con tutti. Diceva di sé: “Sono superbo, iracondo, villano, soperchiatore, fazioso, demagogo, anarchico, amico insomma del disordine ridotto a sistema”. E tuttavia, obbligato dalla vita, fu sempre “un cittadino quieto e da bene”.

Uno stile che ruggisce

Il suo classicismo non è mai imitazione, ma rivolta elegante. Pur attingendo al mondo greco e latino, Carducci mescolava realtà e mito, satira e amore per la patria, con un linguaggio limpido ma pieno di forza. Le sue poesie non sono semplici esercizi di forma: sono battaglie in versi, in cui l’antico diventa arma per criticare il presente. Nei suoi componimenti si leggono le tensioni del tempo, i cambiamenti politici, le ferite personali. Ma sempre attraverso un filtro armonico, che riconduce il caos a un ordine superiore, quasi platonico. Le raccolte giovanili come Juvenilia e Levia Gravia già mostrano questa tensione. Con Odi barbare Carducci osa davvero: sperimenta una metrica nuova, ispirata ai versi latini ma adattata all’italiano moderno. Una piccola rivoluzione in un’epoca che sembrava incapace di innovare davvero.

Quel mistero sull’accento

Perfino il modo in cui scriveva il suo nome è diventato oggetto di discussione. Alcuni testi riportano la forma “Giosue”, senza accento. Ma era davvero sua volontà? Secondo fonti attendibili come Fumagalli e Salveraglio, si trattò di una semplice pigrizia grafica o forse di un vezzo negli ultimi anni. Nei documenti ufficiali, e nei ricordi di amici e familiari, lui è sempre Giosuè, con l’accento ben saldo, come a voler sottolineare la forza dell’ultimo battito del nome.

Un’eredità viva

Giosuè Carducci muore nel 1907, stroncato da una broncopolmonite. Ma la sua eredità rimane. Non solo nelle antologie scolastiche o nelle statue nelle piazze, ma in ogni parola che rifiuta la banalità, in ogni verso che osa sfidare il tempo. A 190 anni dalla sua nascita, Carducci è ancora qui, a ricordarci che la poesia può essere un’arma, una carezza, una ribellione.