Difficile crederlo, eppure per Fernando Aramburu tutto comincia con tre cactus. Li dispone davanti a sé, come muti spettatori, prima di iniziare a scrivere. Non importa che si tratti di un racconto o di un romanzo: quei tre convitati di pietra sono la sua bussola, il suo rito privato. «Mi ricordano che non scrivo per me, ma per gli altri», spiega lo scrittore basco. «Hanno la forma di tre teste, non ribattono mai. Sono i miei potenziali lettori: credono alla realtà narrativa che offro loro e si emozionano per le vite che invento. Tutto inizia da questo piccolo inganno». È con questo spirito che Aramburu, autore di Patria, è stato insignito del Premio Malaparte 2025, consegnato alla Certosa di San Giacomo a Capri. Un riconoscimento prestigioso, tornato alla sua piena vitalità grazie alla tenacia di Gabriella Buontempo, che ne ha rilanciato l’edizione numero quattordici.
L’autore di Patria e la doppia anima della scrittura
Aramburu si definisce diviso in due: da un lato il romanziere, dall’altro l’autore di racconti brevi. «È nella novella che lascio entrare il veleno e le zone oscure», dice. «Mi guida l’intuito, perdo la compassione verso l’umanità che invece conservo nei romanzi. Sono testi poco rassicuranti, non da spiaggia. L’umorismo, a volte crudele, mi accompagna anche quando scrivo di dolore o di morte».
Nella vita quotidiana, però, è un uomo metodico e silenzioso: «Sono molto solitario, ripeto gli stessi gesti alle stesse ore. Per dirla con Kant, potete regolarmi come un orologio. Ma appena prendo la penna in mano, il diavolo si impossessa di me». Nel romanzo, invece, tutto cambia: «Lì c’è pianificazione, disciplina, strategia. Conosco già il finale, e questo mi permette di sapere sempre dove sto andando. Scrivere un romanzo è come giocare una partita a scacchi con il destino».
La vita tra i libri e la memoria
Nato nei Paesi Baschi ma vissuto a lungo in Germania, Aramburu racconta di aver imparato a difendere la propria lingua madre: «Temevo che lo spagnolo si perdesse in me». La sua scrittura, dice, nasce da una disciplina quasi monastica: «Vivo come in una cabina armadio piena di abiti. Ogni vestito è un ruolo: romanziere, editorialista, sognatore».
Il successo mondiale di Patria – il romanzo che ha raccontato le cicatrici lasciate dal terrorismo dell’Eta – non lo ha mai sedotto fino in fondo. «Non volevo ripetermi, né vivere all’ombra del mio libro più celebre», ammette. «La popolarità non definisce il mio lavoro. Avrei potuto cavalcare il successo e guadagnare molto, ma ho preferito aspettare cinque anni prima di tornare a scrivere. Il mio sogno resta quello di sempre: realizzare la migliore opera possibile rispetto alle mie capacità».
Il dialogo con il ragazzo che è stato
Oltre ai cactus, Aramburu dialoga con una presenza costante: il sé adolescente. «A volte sogno di incontrarlo, capelli lunghi e aria ribelle. Mi rimprovererebbe molte delle mie idee di oggi, ma io gli risponderei che sono il frutto di un’evoluzione naturale. Abbiamo però una cosa in comune: non abbiamo mai accettato la violenza, né privata né politica». La violenza, per lui, resta una ferita viva. «L’ho conosciuta da ragazzo, quando l’Eta uccideva nella mia terra. E continuo a sentirla nel mondo di oggi, tra guerre e sopraffazioni. Per questo credo che gli scrittori e gli intellettuali abbiano il dovere di parlare, di farsi sentire quando tutto intorno tace», ha aggiunto il noto scrittore.
La voce della coscienza europea
Con la calma di chi ha attraversato molte tempeste, Aramburu riflette sul ruolo dell’intellettuale nel presente: «Se non si esprimono gli intellettuali, chi lo farà? Sono sempre i primi a essere messi a tacere». Forse è anche per questo che continua a scrivere, fedele al suo piccolo rito quotidiano davanti ai tre cactus. Mentre il mondo fuori cambia e rumoreggia, lui resta lì, in ascolto di quel silenzio-assenso che da sempre lo accompagna: quello dei suoi lettori ideali, pronti a credere – almeno per il tempo di una storia – che la letteratura possa ancora salvare qualcosa.





