Il professor Alessandro Barbero va in pensione. Lo storico che ha rovesciato il paradigma del Medioevo come epoca buia e che, su YouTube, ha ottenuto due milioni di visualizzazioni con una lezione su Cavour, ha rilasciato un’intervista a “La Stampa”, raccontando perché ha deciso di lasciare l’Ateneo di Vercelli, dove era arrivato nel 1998, l’anno di fondazione dell’Università del Piemonte Orientale.
Barbero spiega perché lascia l’università
«Il destino mi ha riservato la fortuna di trovare attività gratificanti anche al di fuori dell’Università. E, dopo 40 anni nei quali ho orgogliosamente insegnato Storia medievale, mi sono accorto che il lavoro di docente è diventato inutilmente più gravoso. La burocratizzazione del nostro mestiere, il tempo passato a svolgere attività che un amministrativo farebbe molto meglio, la pretesa di trasformare studiosi e ricercatori in capi ufficio ha reso stressante un lavoro bellissimo», ha spiegato il professor Barbero. «Non voglio provare l’ansia di sprecare il mio tempo in attività che non sono quelle per le quali mi sono formato e siccome sono sufficientemente vecchio per ricordare un periodo in cui le cose funzionavano in modo diverso, credo sia il momento di lasciare», ha aggiunto il docente.
Alessandro Barbero va in pensione: “La burocratizzazione del nostro mestiere ha reso stressante un lavoro bellissimo”
«Quando sono arrivato, questa Università era stata la seconda facoltà dell’Università di Torino, cresciuta grazie a studiosi di grandissimo valore, docenti che magari non si sono fermati a Vercelli per l’intera carriera ma hanno dato il proprio contributo a far nascere il progetto. E la città ha risposto fin da subito molto bene», ha proseguito Barbero. L’idea di spostarsi in un altro ateneo? «Le grandi università offrono maggiori opportunità per chi voglia spendersi a livello organizzativo, curare progetti e cercare finanziamenti e agli studenti garantiscono un ventaglio di corsi maggiori. A me, però, interessa fare ricerca e insegnare. E un ateneo di medie dimensioni è decisamente la situazione ottimale. Sfianca meno per la quantità di esami da fare e di tesi da seguire e consente un rapporto più diretto con i ragazzi».
“La prima aula? Uno stabile a pochi passi dalla stazione”
Ha avuto molti allievi: «Dalle aule tantissimi: faccio tra i 200 e i 250 esami l’anno, niente rispetto ai numeri dei colleghi delle grandi Università, ovviamente. Ma abbastanza per poter dire che la qualità dei giovani, negli anni, non è cambiata. La quantità di teste, di gente appassionata è sempre la stessa. Certo, ogni generazione ha caratteristiche sue: oggi i ragazzi sono forse più fragili, più spaventati dall’incertezza del futuro e timorosi rispetto al passato, ma l’intelligenza e la passione che dimostrano nella ricerca non sono diminuiti», ha raccontato Barbero. La sua prima aula? «In uno stabile a pochi passi dalla stazione, una struttura prefabbricata in cemento, a due piani. Poi nell’ex ex collegio dei poveri. Oggi abbiamo locali prestigiosi, nell’area della basilica di Sant’Andrea. È una bella caratteristica dell’Università italiana quella di occupare spazi antichi, magari meno funzionali di quelli avveniristici costruiti in altri Paesi, ma ricchi di fascino. Però quel che conta, alla fine, sono i ragazzi che hai davanti. I loro sguardi, la loro curiosità sono uguali dappertutto, nel prefabbricato così come nell’aula del 1700».
“La narrazione secondo cui un laureato in lettere sarà un disoccupato è falsa”
Barbero ha poi affermato: «La narrazione secondo cui un laureato in lettere sarà un disoccupato è falsa. Va da sé, però, che nella dimensione attuale, in cui l’università è fortemente aziendalizzata, un dipartimento umanistico offra meno occasioni per collaborare con l’economia del territorio. E in un mondo in cui anche le carriere dei docenti si misurano sulla capacità di portare finanziamenti, i dipartimenti umanistici soffrono. L’errore sta nel pensare che tutti vadano valutati nello stesso modo. Noi alleviamo quella parte di popolazione che vuole ragionare sulla storia, la filosofia, la lingua, i motivi per cui stiamo al mondo. Ed è una funzione indispensabile per il benessere della società: i nostri laureati magari non diventeranno ricchi, ma saranno il lievito che fa crescere le nuove generazioni».





