Lo conosciamo soprattutto per poesie come Chi sono?, in cui definisce il poeta «il saltimbanco dell’anima mia», per Il controdolore (1914), vero e proprio manifesto pubblicato su «Lacerba» nel quale invita a fare dell’ironia una filosofia di vita; per Il Codice di Perelà (1911), secondo tanti il suo vero capolavoro. E ancora per la ricca produzione di racconti all’insegna della leggerezza contenuti ne Il Re bello (1921) e Il palio dei buffi (1937); e romanzi di successo come Le Sorelle Materassi (1934). Stiamo parlando di Aldo Giurlani, che firmò tutti i suoi scritti col cognome Palazzeschi.
Ed è stato lo stesso intellettuale, all’età di ottantacinque anni, a spiegare la ragione dell’adozione di quello pseudonimo, con cui è noto universalmente: «Tra i molti dispiaceri che ho dato a mio padre, facoltoso commerciante fiorentino che sognava per me una carriera seria nel mondo degli affari, uno almeno gliel’ho risparmiato: quello di vedere il suo onorato cognome finire sui giornali». Una scelta ben precisa quella del poeta: «Quando decisi che non avrei saputo far altro che scrivere, adottai il cognome della nonna materna che si chiamava Anna Palazzeschi ed era una donna straordinaria. Le sue favole hanno reso la mia fanciullezza come un giardino incantato. No, mio padre non ha mai contrastato la mia vocazione, anche se non l’ha mai approvata. Venimmo ad un compromesso e ciascuno di noi tenne fede alla propria parte. Io me ne andai liberamente per la mia strada e ottenni qualcosina con le mie poesie, i miei racconti, i miei romanzi. Insomma non posso lamentarmi di nulla perché ho sempre fatto quello che mi andava di fare».
Per Palazzeschi una grande passione è stata anche il teatro, tant’è che tentò la carriera di attore, frequentando un’accademia d’arte drammatica. Dopo il debutto con la compagnia di Virgilio Talli nel 1906 il giovane Aldo tornò però alla letteratura, l’altra sua straordinaria vocazione. Con il suo solito tono ironico Palazzeschi parlava così degli esordi: «Cominciai a scrivere a scuola, potevo avere quindici o sedici anni. E scrivevo commedie (…) Ricordo un giorno di averne scritta una (…) durante una lezione di Economia Politica. La lezione di Economia, quella di Diritto Civile e commerciale, di Ragioneria e di Matematica fornivano il tempo migliore per la mia produzione. (…) I professori vedendomi tutto immerso nello scrivere mentre eseguivano le loro spiegazioni tranquille, sicuro che io facessi tesoro delle loro parole senza volerne perdere una sillaba, mi tenevano in una considerazione elevatissima».
Lo entusiasmavano, invece, discipline come italiano, francese, storia e geografia. «Mi si sarebbe detto un futuro viaggiatore, invece, eccomi qui, sono stato così fedele alla mia cupola di Firenze», affermò nel 1937. In effetti, l’amore per la sua città, come quello per la poesia e la letteratura, lo ha sempre accompagnato. «Io sono un uomo che soffre di vertigini scritte», diceva tracciando un ritratto di sé.





