Aveva 35 anni. Un prete giovane, appassionato, con il volto aperto e il sorriso dei sacerdoti che i ragazzi ascoltano volentieri. Eppure, don Matteo Balzano ha deciso di andarsene in silenzio, lasciando un vuoto che fa rumore in tutta la Chiesa italiana. La sua morte (suicidio) ha scosso profondamente le coscienze, rompendo uno dei tabù più resistenti del mondo ecclesiale: la sofferenza dei preti. Il dramma si è consumato a Cannobio, nel Verbano-Cusio-Ossola, dove don Matteo era vicario parrocchiale e lavorava soprattutto con i giovani dell’oratorio. Era arrivato lì dopo un percorso difficile, segnato da momenti di fragilità. Ma nessuno, raccontano dalla diocesi, aveva colto segnali recenti d’allarme.
La Chiesa si interroga (finalmente)
Questa volta però, il lutto non è stato accolto solo con preghiere e silenzi rispettosi. Qualcosa si è rotto, e dalle crepe sono uscite parole nuove, dense, persino scomode. “Mi ha colpito al cuore”, scrive padre Massimo Fusarelli, Ministro generale dei Frati Minori. “Pregherò perché non manchi mai l’ascolto e la presenza amica”. Mons. Massimo Angelelli, responsabile per la Pastorale della salute della CEI, è ancora più diretto: “I preti sorridono, ma a volte nel cuore c’è un buio profondo. Hanno scelto di servire, anche quando si sentono schiacciati da aspettative impossibili”. Una sofferenza che spesso si maschera dietro la dedizione. “Il prete e i suoi inferni”, scrive don Marco Pozza, cappellano del carcere Due Palazzi, in un post che ha fatto il giro del web. Inferni silenziosi, vissuti nell’ombra di una missione che chiede tutto e, a volte, restituisce poco ascolto.
Non bastano più le formule
“Solo il Signore sa”: quante volte si è usata questa frase per archiviare il mistero del dolore? Emilia Palladino, teologa della Gregoriana, la rifiuta con forza: “Serve rispetto, certo. Ma anche una riflessione collettiva. La Chiesa deve domandarsi che ruolo ha avuto. Perché uno muore, ma molti altri stanno male e tacciono”. È un grido che non si può ignorare. Non questa volta.
Le parole di chi lo conosceva
Don Gianmario Lanfranchini, vicario della diocesi di Novara, ha seguito da vicino il percorso di don Matteo. Le sue parole sono un pugno nello stomaco e insieme un invito alla responsabilità: “Aveva parlato con il vescovo, con i confratelli, con professionisti. Aveva affrontato le sue fragilità, cercato tutte le strade. Non era un disagio improvviso. Ma evidentemente non è bastato”. Il senso di impotenza si mescola alla necessità di non archiviare tutto come un dolore privato: “Oggi non sappiamo più raccontare la morte, non sappiamo più gestirla. Dobbiamo ripartire dalle fragilità, smettere di averne paura. In un tempo che corre veloce, abbiamo bisogno di rallentare e tornare a essere umani”.
Un cambiamento in corso
La Chiesa non è più ferma come un tempo davanti al suicidio. Domani sarà lo stesso vescovo di Novara, Franco Brambilla, a celebrare il funerale nella collegiata di San Vittore. Questa sera, intanto, si terrà una veglia di preghiera. Segni importanti, che indicano che la Chiesa sta imparando a guardare in faccia il dolore dei suoi stessi ministri. A dire che no, non basta indossare la veste per essere forti. E che la fragilità, se non accolta, può diventare una trappola silenziosa.
Don Matteo non era solo “un prete”
Era un uomo. Un uomo che ha lottato, che ha chiesto aiuto, che ha provato a riprendersi. Un uomo che ha vissuto la fede anche nel dubbio. E che oggi ci costringe – credenti e non – a guardare in faccia ciò che spesso ignoriamo: la fatica del vivere, il bisogno di ascolto, l’umanità che non possiamo perdere. Perché il silenzio può uccidere. E dietro ogni “va tutto bene” può nascondersi una richiesta disperata di aiuto.





