Cervelli in fuga, l’emigrazione dei giovani italiani continua senza tregua

Negli ultimi decenni si è sentito spesso parlare del fenomeno dei ”cervelli in fuga”. Si tratta della giovane generazione di italiani di età compresa tra i 18 e i 35 anni circa che lascia il “Bel Paese” per fuggire all’estero. Il caso dei “cervelli in fuga” è sempre un fatto di attualità, dagli anni 2000 in avanti sempre in continuo aumento. Secondo i recenti dati del 2022 la mobilità italiana ha avuto una crescita dell’87%. Il rapporto condotto da “Migrantes”, ha rilevato inoltre che è più alta la percentuale della comunità italiana all’estero, che non quella degli immigrati che vengono a risiedere in Italia. L’indagine afferma che in Italia vi è la presenza dell’8,8% dei cittadini stranieri regolarmente residenti contro il 9,8% dei cittadini italiani che risiedono all’estero. Un dato importante che fa comprendere, quanto le percezioni personali in merito al fenomeno dei processi migratori vengano spesso ribaltate dall’eccessiva disinformazione.

La diaspora italiana non è l’unica ad essere dispersa in giro per gli stati europei, vi sono anche altri paesi coinvolti nei “movimenti migratori”, come il caso dell’immigrazione rumena iniziata con gli anni 90 oppure quella turca in Germania avviatasi nel secolo scorso. La migrazione romena già esisteva prima degli anni 90, le prime migrazioni avvenivano negli anni 70 per sfuggire alla dittatura di Nicola Ceausescu. https://www.fattiperlastoria.it/nicolae-ceausescu/

Con la caduta della dittatura la Romania sfocia in una situazione di crisi da cui fatica a riprendersi, sono numerose le fabbriche e i posti di lavoro che chiudono, così come la disoccupazione inizia a dilagare, ciò spinge i rumeni a lasciare il proprio stato per andare alla ricerca di fortuna altrove. Le prime destinazioni scelte inizialmente erano i paesi di confine, poi con il passare del tempo ci si è focalizzati sull’area mediterranea, puntando alla Spagna e l’Italia che gradualmente sono divenute le mete preferite dai migranti romeni. Ad oggi la comunità rumena rappresenta una delle più consistenti in Italia.

Un altra storia è quella degli immigrati turchi in Germania, ancora più vecchia dell’immigrazione rumena. La comunità turca rimane sempre in prima posizione nella lista delle comunità più numerose nello stato tedesco. La Germania dopo la seconda guerra mondiale sul piano della ripresa industriale ha dovuto far fronte al problema della scarsa manodopera, così a seguito della stipulazione dell’accordo turco – tedesco firmato nel 1961, si avvia il processo di migrazione turca verso la Germania. I turchi migravano in Germania temporaneamente, di solito i contratti che venivano fatti a distanza dalle aziende germaniche avevano durata di un anno circa. Questa situazione viene stravolta negli anni 80/90 quando gli immigrati turchi iniziano a stabilirsi sul territorio con i ricongiungimenti famigliari e l’ottenimento di asilo equlibrando così il loro status sociale all’interno del paese, fino ad arrivare ai nostri giorni in cui ormai sono completamente integrati.

La migrazione italiana invece è spinta dal “carente disegno” del mercato del lavoro che negli ultimi anni è peggiorato. La situazione si è aggravata ulteriormente negli ultimi tre anni con la crisi sanitaria del Covid 19. Le lacune presenti nel mondo lavorativo in Italia affondano le loro radici anche dall’impostazione sbagliata che c’è nell’istruzione, ad esempio quando si parla di “alternanza scuola lavoro” o “tirocini curricolari”, molti studenti “lamentano” del fatto che le loro esperienze di sperimentazione si siano ridotte al “fare le fotocopie” o che non siano abbastanza seguiti dalle figure di riferimento, i così detti tutor che dovrebbero permettergli di acquisire competenze. In questo senso ai ragazzi non vengono dati gli strumenti adatti per far si che si mettano in gioco e inizino a comprendere le dinamiche del contesto lavorativo.

La formazione e il lavoro in un paese all’avanguardia dovrebbero andare di pari passo per favorire lo sviluppo e il benessere di uno stato, purtroppo l’Italia non beneficia di questa cooperazione, basti pensare che non sono molte le aziende che forniscono formazione ai propri dipendenti prima che vengano assunti, spesso per mancanza di fondi. Questa situazione cambia all’estero specie nei paesi del nord Europa ad esempio, dove la filiera lavorativa è strutturata diversamente. I paesi scandinavi rispetto ai paesi dell’Europa meridionale presentano una maggiore simmetria tra tenore di vita e assetto economico sociale.

Questi paesi sotto l’aspetto lavorativo offrono diversi benefici tra cui: la parità di diritti tra uomini e donne riguardo all’aspetto retributivo, maggiori garanzie contrattuali, le ferie vengono pagate e sono previste agevolazioni per chi intende crearsi una famiglia. La maternità viene valorizzata, in modo tale che le donne possano conciliare lavoro e famiglia occupandosi dei figli. Tutto ciò in Italia resta ancora un miraggio, c’è ancora molto da lavorare sulle politiche che governano il panorama lavorativo.

Un’altra nota negativa che contribuisce all’aumento del fenomeno migratorio italiano è quella riguardante i “salari bassi”. Un problema che è stato ancor più messo in luce dall’ultima indagine fatta a Dicembre 2022 dall’Osservatorio Futura per la Cgil, in cui l’ 86% del campione sosteneva di percepire le retribuzioni italiane più basse rispetto a quelle di altri stati europei, solo l’1% le ha reputate più elevate e l’8% allineate con il resto degli stati dell’Unione europea. Il lavoro “sottopagato” è uno dei problemi dominanti del mercato del lavoro in Italia, soprattutto quando si parla di quella fascia giovane di popolazione che si avvia ad entrare nel mondo del lavoro. Se gli stage offerti dalle scuole non offrono i mezzi necessari per iniziare ad elaborare una visione dell’ambiente professionale, gli stage extracurriculari rivolti ai neo diplomati o neo laureati che siano non sono da meno, specialmente sul piano economico, se si conta che il più delle volte offrono un “rimborso spese” inadeguato alla qualità della vita.

Questa condizione di “disequilibrio salariale” viene spesso giustificata dai datori di lavoro con il fattore della “poca esperienza” del candidato, un aspetto che passa in secondo piano, in quanto succede che le aziende propongano esperienze formative con “stipendi miseri” anche a ragazzi trentenni. Questo scenario lavorativo instabile negli ultimi anni ha favorito lo sviluppo della generazione “NEET” https://www.nostrofiglio.it/bambino/istruzione/NEET-chi-sono, la categoria di giovani che non sono occupati né in percorsi di studio, né in attività lavorative. I centri per l’impiego trovano sempre più limitante reclutare persone specializzate, ciò è correlato al discorso della “famosa” formazione per la quale non si investe abbastanza.

L’Italia continua a perdere “risorse giovani” che potrebbero contribuire alla crescita dello stato. Le mete europee più scelte dagli “expat” sono Regno Unito, Germania, Francia e Svizzera. La fondazione Leone Moressa, istituto per studi e ricerche sull’economia, nel 2022 ha stilato un bilancio attraverso i dati ISTAT in merito alla percentuale dei migranti “laureati e non” nei paesi di destinazione. Si è rilevato che le prime tre mete citate in precedenza registrano tra il 21% e il 22% di laureati, dato al di sotto della media complessiva, non a caso c’è anche una buona presenza di manodopera italiana poco qualificata. Nella lista di paesi che presentano un affluenza maggiore di laureati abbiamo, Paesi Bassi (45,1%) e Belgio (39,1%), probabilmente perché questi offrono più possibilità lavorative in grandi aziende, istituti di ricerca e istituzioni varie. Da questa analisi si evince che quando si parla di “fuga di cervelli”, non si intende solo quella “fascia” di giovani italiani che hanno ottenuto alte qualifiche, ma anche quelli che hanno svolto percorsi più tecnico pratici ottenendo titoli medio bassi. Nella maggior parte dei casi il biglietto di andata verso l’estero che sia per studio o lavoro è sinonimo di “non ritorno”, perché prende sempre più piede la teoria, “l’Italia non è un paese per giovani”, in effetti queste non sono più parole “buttate all’aria”, ma rappresentano la realtà vera e propria consolidata negli ultimi anni. Il mercato lavorativo italiano è divenuto “infertile”, sembra non essere più in grado di offrire prospettive future alle generazioni post millenials.

Il fenomeno dell’espatrio fa parte della storia italiana da secoli, infatti in differenti epoche ci sono state svariate migrazioni. Un esempio è quello della grande migrazione a cavallo tra 800 e 900, in cui molti cittadini italiani soprattutto del meridione partirono per le Americhe, dove vi era un elevata richiesta di manodopera, le cause correlate alla povertà e arretratezza nei settori agricolo ed industriale, in particolare nel “mezzogiorno”. Oggi giorno come all’ora le ragioni che portano un giovane a trasferirsi dalla “terra natia” sono diverse, possono essere l’accesso a offerte lavorative più vantaggiose a livello economico, la voglia di fare un esperienza formativa, conoscere luoghi differenti dal proprio in cui si è cresciuti. Ma vivere in un altro stato permette anche di aprire la propria mentalità, cogliendo gli aspetti negativi e positivi sia del paese di provenienza sia di quello ospitante.

Il sito di informazione Vice, lo scorso anno ha raccolto delle interviste di expat tra i 20 e i 30 anni che spiegavano le loro esperienze fuori dal “bel paese”, tra questi abbiamo, Isabella, 27 anni, Chiropatica, che si è trasferita in Inghilterra, si è diplomata per poi iscriversi all’università e infine laurearsi in Chiropatia, riguardo a ciò afferma, “In Italia non esistono scuole di formazione per chiropratici, quindi mi hanno pure contattata più volte per tornare a praticare la professione. Che è una eccezione, dato che solitamente i giovani vanno via. Al momento ho sempre declinato, anche se il mio paese e la mia regione, la Sicilia, mi mancano spesso. Poi aggiunge, “La cosa che però non mi manca, ed è uno dei motivi che mi ha spinto inizialmente ad andar via, è l’eccessiva importanza che diamo all’apparenza. Nella mia esperienza personale, qui c’è molta più apertura e zero stupore per quelle che in Italia verrebbero percepite come “devianze dalla norma.” Mi spiego: nella mia università a Bournemouth era naturale vedere persone di qualunque età frequentare, senza che nessuno le guardasse come alieni. Oppure nessuno ha avuto da ridire quando, appena ho avuto due figli con il mio compagno inglese.

Naomi, 23 anni studentessa. Naomi ha deciso di stabilirsi in Olanda scegliendo la facoltà di scienze politiche, successivamente ha cambiato percorso, iscrivendosi a Media and information. Vivendo ad Amsterdam ha notato che è una città “aperta alle novità, multietnica, europea, ma con spirito internazionale. “Si parla di un paese che è stata una grande potenza coloniale, quindi presenta ancora dei forti retaggi. Nonostante ciò, mi piace però che ad oggi non ci si preoccupi del luogo da cui provieni e di cosa stai facendo. La cosa che mi manca meno dell’Italia in effetti è proprio legata a questo, al continuo interrogare la persona basandosi sulla sua provenienza, etnia e credo”.

Alessandro, 29 anni, Acquatic manager. Alessandro è un altro ragazzo expat, il quale dice che emigrare non era mai stata la sua priorità, aveva avuto un esperienza all’estero con l’Erasmus in Spagna. Dopo aver conseguito il master in sport e business management decide di ritornare in Italia per lavorare, però ad un certo punto si accorge che tutto ciò che guadagnava non riusciva a risparmiarlo e ad avere prospettive di crescita. Così a Gennaio del 2020 ha deciso di trasferirsi a Sydney in Australia.

“Ho iniziato a lavorare come cameriere e solo con quello ho potuto mettere qualche soldo da parte—che già fa ridere se immagini la stessa situazione in Italia. Dopo il secondo lockdown ho trovato lavoro in un centro sportivo e da poco sono passato al grado di Aquatic manager. Essenzialmente mi occupo di gestire tutte le attività natatorie del centro: aprire nuove classi di nuoto, fare recruitment e formazione per i nuovi insegnanti e gestire i clienti”. Aggiunge, “Non credo che in Italia sia impossibile fare carriera, ma se penso al mio percorso lavorativo in questi due anni passati in Australia e provo a paragonarli alle tempistiche italiane non credo che sarei arrivato dove sono adesso”.

Queste sono le esperienze di ragazzi e ragazze che hanno lasciato la patria pur facendolo a malincuore, al contempo i loro racconti fanno riflettere sui fronti che dovrebbero essere migliorati per valorizzare la fascia giovane che contribuirebbe allo sviluppo del paese.

Articoli consigliati