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“La giusta distanza dal male”: Giorgia Protti racconta il pronto soccorso come nessuno prima

Nel suo esordio narrativo, Giorgia Protti firma un romanzo potente e disturbante, La giusta distanza dal male (Einaudi, 2024), che trascina il lettore nel cuore pulsante di un pronto soccorso cittadino e nel cuore ferito di una giovane dottoressa. Ma più che una narrazione lineare o cronachistica, Protti ci consegna un’esperienza emotiva, immersiva e disarmante. Il punto di forza del romanzo è senza dubbio la focalizzazione interna, che consente al lettore di vivere gli eventi non come spettatore, ma come coscienza viva e percettiva all’interno della protagonista.

Il mondo in corsia: claustrofobia emotiva e logoramento psichico

Il libro si apre con un ritmo incalzante: la protagonista – mai nominata – lavora come medico d’urgenza in un grande ospedale urbano. L’ambiente non è solo il teatro della malattia e della sofferenza, ma anche un labirinto morale. Ogni turno è una sfida al proprio senso del limite. Giorgia Protti ci mostra il logoramento silenzioso che si insinua tra i respiri trattenuti, le diagnosi complicate, gli occhi dei pazienti e le notti insonni. La narrazione, in prima persona, ci proietta in una interiorità lacerata e stanca, dove l’empatia rischia di diventare una condanna.

Qui entra in gioco la focalizzazione interna: ogni scena è filtrata attraverso i pensieri, i dubbi e le paure della protagonista. Non esistono descrizioni “neutrali”; tutto è vissuto, elaborato, interpretato da lei. Il lettore percepisce l’ambiente, le persone e persino il tempo attraverso un campo percettivo distorto dalla stanchezza e dalla pressione emotiva. È un romanzo che si legge da dentro, e non da fuori.

Il Male con la M maiuscola

La svolta arriva con l’apparizione enigmatica di una figura oscura: un uomo dalle ali nere, seduto sul cofano di un’auto nel parcheggio dell’ospedale. Qui il romanzo prende una piega simbolica e allegorica. Chi è questa figura? Un’allucinazione? Una personificazione del Male? O forse un riflesso interiore, generato dal burnout emotivo?

La scelta di non chiarire mai pienamente la natura di questo personaggio è una delle intuizioni più efficaci di Protti. L’incontro con il “male” non è una semplice deviazione fantasy, ma una rivelazione psichica. Attraverso il confronto con questa entità, la protagonista prende coscienza di sé, dei limiti della sua dedizione, e della necessità di porre una distanza – “giusta” – tra sé e il dolore degli altri. La focalizzazione interna accentua questa ambiguità: anche il lettore, come la protagonista, non può distinguere se ciò che vede è reale o immaginato.

La lingua come corpo sensibile

Lo stile di Protti è asciutto, chirurgico, ma non privo di profondità lirica. Le frasi sono spesso brevi, taglienti, quasi come suture. Ma qua e là si aprono fenditure poetiche, momenti in cui il dolore si fa parola viva. Questo stile rispecchia perfettamente la mente della protagonista: analitica e razionale, ma costantemente attraversata da un’onda emotiva che non riesce più a contenere.

La coerenza tra linguaggio e focalizzazione è uno degli elementi più raffinati del romanzo. La lingua stessa diventa strumento di introspezione, specchio fedele dell’alterazione emotiva che si fa sempre più profonda. Quando il male comincia a manifestarsi, il linguaggio si fa più rarefatto, simbolico, quasi delirante. È una discesa consapevole e condivisa nell’abisso dell’esaurimento psichico.

Solitudine e resistenza

Altro tema portante del romanzo è la solitudine. La protagonista non ha una vera vita al di fuori dell’ospedale. I rapporti sociali sono ridotti a episodi rapidi e superficiali, segnati da una distanza sempre più marcata. La narrazione mostra come l’abnegazione totale al lavoro possa diventare una forma perversa di isolamento. La figura del male funge anche da catalizzatore: è l’unico interlocutore “vero” della protagonista, anche se minaccioso.

La focalizzazione interna ci permette di avvertire questa solitudine in modo profondo. Il lettore vive l’angoscia della protagonista, la stanchezza che si accumula senza tregua, il senso di colpa che nasce quando non si riesce più a “salvare” tutti. In questo senso, La giusta distanza dal male è anche un romanzo di formazione, seppure cupo e doloroso, che racconta il percorso verso un’accettazione dei propri limiti.

Conclusione

La giusta distanza dal male è un esordio narrativo notevole. Giorgia Protti riesce a fondere realismo e simbolismo, introspezione e tensione narrativa, in un’opera che lascia il segno. La forza del romanzo risiede nella sua focalizzazione interna costante e profonda: non siamo solo spettatori della vita di una giovane dottoressa, ma abitiamo il suo corpo, sentiamo il suo battito, respiriamo con lei l’aria carica del pronto soccorso.

È un libro che parla con voce chiara a chi lavora nella sanità, ma anche a chiunque si sia mai sentito sopraffatto dal dolore altrui. La “giusta distanza” diventa così una metafora universale: quella che dobbiamo imparare a mantenere per sopravvivere al male del mondo, senza farci travolgere.