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Francesco Guccini torna in libreria con “Romeo e Giulietta 1949”: “L’immobilità mi ha costretto a inventare”

Sull’Appennino la stagione arriva sempre un po’ prima, e l’ultimo raggio di sole che accarezza Pàvana ha il colore della nostalgia. Nostalgia per l’estate appena finita, per gli amici che non ci sono più, per l’infanzia di un bambino che imparava la libertà e la fantasia tra i boschi. Quel bambino oggi ha ottant’anni, ma la stessa ironia negli occhi di allora. Seduto davanti a un bicchiere di Moscato e a una scatola di paste di meliga, Francesco Guccini sorride mentre racconta di quando «passavamo le giornate al mulino, nel fiume, a catturare i pesci con le mani per portarli a casa la sera». Da quella fantasia nasce anche il suo nuovo romanzo, Romeo e Giulietta 1949, che esce oggi per Mondadori.

“La memoria è un motore, ma non ho fatto una fotografia”

«Questa storia è solo vagamente autobiografica», dice Guccini in un’intervista a “La stampa”. «Sì, il bambino protagonista finisce in una piccola città, ma è un po’ più grande di quanto fossi io nel 1949. Tutto si svolge a Carpi, dove viveva la famiglia di mia madre, anche se io lì non ho dormito nemmeno una notte. Ho preso degli spunti, ma non ho fatto una vera fotografia». Nel romanzo si respira l’Italia che si rialza dopo la guerra: le famiglie democristiane, i vicini comunisti, persino qualche fascista superstite. «C’è un affresco dell’epoca» spiega, «ma dalle mie parti, allora, i fascisti mica c’erano più».

“L’immobilità mi ha costretto a inventare”

Guccini racconta che l’idea del libro è nata «dall’immobilità». «Ho avuto la sventura di passare due mesi in ospedale, senza potermi muovere dal letto. Così mi sono messo a fantasticare, a raccontarmi delle storie. Ho costruito i personaggi, l’impianto narrativo, e quando sono tornato a casa ho messo tutto su carta». Lo scrittore sorride, accarezzando il bicchiere di vino: «È la fantasia che mi tiene vivo, la stessa che avevo da bambino».

“Fenoglio, Pavese, Gozzano e gli americani”

Nei suoi racconti si riconoscono echi di Fenoglio, Pavese e Gozzano. Guccini annuisce: «Non so se abbiano influenzato la mia scrittura, ma li ho amati molto. Ora soffro perché non riesco più a leggerli, ma riascolto Fenoglio e ricordo a memoria Gozzano». Poi aggiunge con un sorriso: «Anche questi torcetti e questo Moscato sono gozzaniani, davvero». E cita i suoi maestri d’avventura: Salgari e gli scrittori americani. «L’America, però, oggi mi delude. È molto diversa da come la immaginavo. Già con il Vietnam era scesa parecchio nella mia considerazione. Però ho ricordi belli: ho insegnato vent’anni per un’università americana a Bologna, il Dickinson College. Ora hanno istituito una borsa di studio a mio nome, e ogni anno un ragazzo può studiare grazie a quella».

“Da Pàvana a Modena: un trauma”

Quando gli si chiede dei suoi primi ricordi della città, gli occhi gli si velano di malinconia. «Dopo la guerra ci trasferimmo a Modena. Mio padre era tornato dal campo di concentramento: non aveva aderito alla Repubblica di Salò e per questo lo avevano deportato. Quando tornò, trovò lavoro alle Poste. A Pàvana c’era la vita contadina, le bestie, il dialetto, il pane fatto in casa. A Modena si comprava tutto nei negozi. È stato un trauma pauroso». Quell’Italia sospesa tra campagna e città rivive nelle pagine del libro, insieme alla memoria del voto del 1946. «Ricordo mia madre e le zie, la paura di sporcare la scheda col rossetto. Mamma votò Repubblica, per dare un voto di classe. Era l’Italia di don Camillo e Peppone, divisa ma capace di stare insieme».

“Non ho mai creduto in Dio, ma il mondo cattolico ha amato le mie canzoni”

A chi gli chiede se abbia mai avuto la tentazione di credere, risponde secco: «No, mai. Ho smesso di andarci da ragazzino, in chiesa. Ma il mondo cattolico mi ha sempre amato. L’arcivescovo Matteo Zuppi è mio amico, è venuto più volte a trovarmi qui a casa». Parlando invece dell’Italia di oggi, scuote la testa: «Sono un po’ spaventato, ma spero sempre che le cose migliorino. Anni fa la giovane Giorgia Meloni mi invitò a una festa del suo partito. Declinoi cortesemente. Da allora non mi hanno più cercato».

“Mi insultano sui social, ma anche quello mi diverte”

Guccini ride mentre racconta: «Mi hanno detto che sui social scrivono cose terribili su di me. Mi affascina, in un certo senso. Un tizio mi ha pure scritto una lettera: “Guccini, va all’inferno vecchio rimbambito! Per fortuna che c’è Vasco Rossi!”. Pensare che abbia comprato un francobollo solo per mandarmi al diavolo mi fa ridere».

“Vorrei essere ricordato come uno che non si è mai preso troppo sul serio”

Sul futuro e sulla scrittura, Guccini non si illude: «Da anni ho in mente un romanzo grande, ma non lo scriverò mai. Sarebbe troppo lungo. Parte da un racconto di mia bisnonna, che era parente di Enzo Biagi: una storia di contrabbandieri di sale, dazi, fughe e briganti. C’è anche un montanaro che vede il mare per la prima volta, come me a dodici anni: e non mi fece nemmeno tutta questa impressione».

Poi si ferma, e aggiunge piano: «Vorrei essere ricordato come uno che non è mai stato pieno di sé. Forse un po’ ambizioso, sì, ma sempre “masato”, come diceva mia madre: umile, al posto giusto». Sorride, pensando ai genitori: «Mia madre venne due volte ai miei concerti. Mio padre mai. Mi dispiace che non abbia letto i miei libri: parlano del suo mondo, del mulino». E se potesse parlargli ancora una volta? «Discuteremmo di politica e di storia. Era un uomo dolce, silenzioso, affabile. Un grande personaggio. Io invece — ride — ho preso tutto da mia madre».